Il caso Agamben che scambia COVID – 19 per una banale influenza e un complotto

L’articolo del 26 febbraio (attenzione alle date!), apparso sul «Manifesto» a firma di Giorgio Agamben ha prodotto un dibattito accesissimo pochi giorni prima che la pandemia deflagrasse.

Agamben è ritenuto uno dei massimi filosofi non solo italiani viventi.

Il suo lungo ciclo dedicato all’Homo sacer ha influenzato non solo il pensiero filosofico stricto sensu ma anche quello giuridico e quello politico.

Cresciuto nell’entourage pasoliniano, che ne fece l’apostolo Filippo nel suo memorabile Vangelo, interlocutore di tutti i massimi pensatori “continentali” del secondo Novecento, Agamben a fine febbraio, ritenendo quella in atto una «supposta epidemia», metteva in guardia dai rischi di «uno stato d’eccezione» (categoria resa celebre da Carl Schmitt) che, alimentando la paura, avrebbe reso giustificabile ogni limitazione delle libertà individuali.

A stretto giro, ad Agamben ha risposto un altro pezzo da novanta del mondo filosofico occidentale, Jean Luc Nancy, che in maniera amicale, finanche ironica, e ribadendo stima per il collega con cui ha lavorato spesso, ne metteva in discussione l’assunto.

Su siti specializzati e non, finanche nella dimensione social, è divampata una furiosa polemica, ogni giorno inasprita dalla crescente consapevolezza che non di una supposta epidemia si trattava ma di un evento catastrofico dai contorni tutt’ora nebulosi.

Dunque, per dirla in parole povere, Agamben, uno dei massimi filosofi mondiali, ha preso un granchio colossale, malgrado si ostini a difendere la sua tesi di fondo, per altro assolutamente coerente con un pensiero dipanatosi negli ultimi venticinque anni (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita è, infatti, del 1995).

Paolo Flores d’Arcais senza peli sulla lingua ha scritto: «Bisognerà mettere da parte il bon ton corporativo, anche a rischio di ostracismo della gilda delle filosofie post post oggi egemoni, e non temere di cominciare a pronunciare qualche modesta verità, ad esempio riconoscere intanto che la filosofia dell’untore e della “invenzione di un’epidemia”, propinataci dal filosofo Giorgio Agamben il 26 febbraio e l’11 marzo, è una filosofia del cazzo».

La polemica, c’è da starne certi, è destinata a proseguire.

Due i punti che mi preme sottolineare.

Il problema: se i filosofi nei momenti “decisivi” della storia prendono cantonate così clamorose, la filosofia a cosa serve? La cultura occidentale non è piena di intellettuali illusi di poter divenire demiurghi delle vicende umane? Gli esempi si sprecano: da Platone che va a Siracusa ad Heidegger che prende la tessera del Partito Nazista e arringa in miserabili e deliranti discorsi gli studenti di Friburgo, passando per il Seneca che forma il matricida Nerone e tanti filosofi che hanno visto in Stalin e Mao leader carismatici e giusti

L’asserzione: grandi uomini commettono inevitabilmente grandi errori. Giorgio Agamben, malgrado il clamoroso abbaglio e la pervicace perseveranza nel difenderlo, rimane un pensatore di altissima levatura. Così come, dunque, è necessario continuare a nutrirsi dell’opera di Martin Heidegger, malgrado il disgusto che suscitano in noi il Discorso del Rettorato o gran parte dei Quaderni neri fino ad ora editi in Italia, allo stesso modo sarebbe folle rinunziare al patrimonio di giustizia e bellezza, alle analisi etimologiche, ai sorprendenti cortocircuiti concettuali, allo scandaglio originale di zone marginali o fraintese della nostra civiltà reperibili nei libri del magister romano.

E qui, dunque, dissentiamo decisamente dalle offese gratuite di cui Flores infarcisce il suo veemente j’accuse. E come le polemiche sul nazismo del “mago di Meßkirch” sono servite in realtà a liquidare un pensiero dirompente (e liberatorio) nella sua critica radicale di ogni “metafisica” (anche storica), così l’attacco ad Agamben dovrebbe servire a liquidarne il contributo eccezionale alla comprensione del presente attraverso categorie bio-politiche che mettono a frutto l’insegnamento di Foucault, e che dovranno continuare, invece, ad essere tra le mappe necessarie a capire gli sconvolgimenti in atto.

Per questo, condividiamo il breve intervento di Nancy, consapevole da subito della gravità degli accadimenti, che evoca la φιλία (philia), l’amicizia e un altro clamoroso abbaglio: «Quasi trent’anni fa, i medici hanno giudicato che dovessi sottopormi a un trapianto di cuore. Giorgio fu una delle poche persone che mi consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito il suo consiglio probabilmente sarei morto ben presto. Ci si può sbagliare. Giorgio resta uno spirito di una finezza e una gentilezza che si possono definire – senza alcuna ironia – eccezionali». Ecco, Agamben è uno spirito di finezza eccezionale, che però ha totalmente mancato di φρόνησις (phronesis), quella che per Aristotele era “saggezza pratica” utile ad orientare le scelte, quanto mai necessaria in questi tempi difficili.

Il disegno (che allude ad un passaggio dell’articolo di Flores d’Arcais evocante I promessi sposi), rappresenta Giorgio Agamben in abiti e contornato da simboli seicenteschi. Come i precedenti che accompagnavano i contributi di Nicola Sguera, è di Ferdinando Silvestri: laureato in fisica, ha capito da un pezzo che la sua strada è quella delle matite. Quando non disegna, divide la sua vita tra famiglia, karate e lettura.