Bocelli al Duomo di Milano

Un amico mi ha chiesto d’intervenire – un’altra volta! – su Andrea Bocelli. Ho cercato perciò di chiarire l’equivoco in cui si cade quando se ne parla o se ne scrive. Queste righe vogliono, sia pure provvisoriamente, allargare e approfondire il discorso.

Il musicista storce – giustamente – il naso. L’ascoltatore medio è travolto dall’entusiasmo e si commuove. Hanno ragione e torto entrambi. Il musicista quando crede che debba giudicare il livello musicale dell’esibizione. L’ascoltatore che si commuove, perché crede che a commuoverlo sia una bravura musicale.

Bocelli è un fenomeno di massa e come tale va giudicato, non come musicista, né come messaggero dell’arte italiana, il tipo intramontabile del tenore italiano, dell’italiano cantante per natura, feticcio semplificante che piace ai non italiani e solletica il narcisismo degli italiani. Inutile dunque indignarsi del suo successo – come è inutile indignarsi per qualunque fenomeno di massa: c’è, non puoi farci nulla – come è anche inutile esaltarne, senza fondamento di competenza, le virtù musicali. Il competente non convincerà mai l’incompetente che l’idolo che adora è appunto solo un idolo senza sostanza. E, d’altra parte, l’adorante non riuscirà mai a spiegare a chi non si lascia trasportare dall’entusiasmo collettivo perché sia invece travolto da quest’entusiasmo.

All’inizio del secolo scorso, e precisamente nel 1929, Ortega y Gasset scrisse un libro fondamentale: La ribellione delle masse. Aveva assistito al trionfo di Mussolini in Italia e sarebbe venuto nel 1933 quello di Hitler in Germania, nel 1936 di Franco in Spagna. Conseguenza di questa idolatria di massa fu la seconda guerra mondiale. Ma Ortega y Gasset non aveva previsto che senza rivoluzioni, senza guerre e senza colpi di stato le masse sarebbero infine riuscite a imporre i propri feticci a tutto il globo. 

Il fenomeno o il problema Bocelli è presto definito: Bocelli non ha niente a che vedere con la musica e tanto meno con la musica del melodramma – un po’ di più con la canzone, e avrebbe dovuto continuare su quella strada, che gli è più congeniale – , ma è invece un fenomeno mediatico, quasi un feticcio di cui andare orgogliosi se compatrioti, e ammiratori se di altri paesi. Conferma il feticcio dell’italiano tenore per natura. Il contenuto di tale feticcio non è diverso dal feticcio di pulcinella e della gondola che si affibbia un po’ in tutto il mondo alla tipologia dell’italiano. Ora, Pulcinella è una grande maschera e a sua volta la gondola è una stupenda invenzione democratica della Repubblica Veneziana per fare in modo che tutti a Venezia usassero lo stesso mezzo di trasporto e nessuno sfoggiasse barche lussuose. Ma i pulcinelli e le gondole sventolate dalla pubblicità turistica di mezzo mondo con la maschera di Pulcinella e con la vera gondola veneziana non hanno nessun rapporto. Così accade per Bocelli: è la materializzazione di un immaginario collettivo digiuno di qualsiasi competenza musicale e teatrale, che proprio per questo innalza a feticcio qualcuno o qualcosa che corrisponda alla sua generica e vuota percezione di che cosa sia la musica e di che cosa sia il teatro.  Chi non sa niente di musica e di teatro, o ne ha solo una vaga idea, è cioè portato proprio per questo a innalzare come simbolo condiviso il feticcio che corrisponda alla sua sostanziale ignoranza e incompetenza riguardo a ciò che il feticcio dovrebbe rappresentare. E allora, di conseguenza, appare certo legittima l’idolatria del feticcio, come di qualsiasi altro feticcio di massa.

Ma ritengo colpevole, o in malafede, quell’istituzione che lo adoperi per ottenere consenso. In epoca di populismi trionfanti, però, di che meravigliarsi? S’è visto e si vede di peggio. Ricordo, giusto per notare una differenza, che negli USA, dopo la distruzione delle torri gemelle, per il concerto commemorativo, la Filarmonica di New York scelse il Requiem Tedesco di Brahms. E gli USA sono il paese guida di ogni fenomeno di massa, e in seguito all’elezione di Trump, sono diventati quasi il modello di riferimento anche per qualunque forma di populismo. Ma le Istituzioni Pubbliche degli USA più prestigiose non si abbassano ad accarezzare il fenomeno di massa, nemmeno quando sono istituzioni private, e lo sono quasi tutte. C’est de la nuance, direbbe Verlaine, giusto per infilarci una citazione da radical chic, come sono sicuro che sarò accusato di essere.  

Ma veniamo a quanto è successo a Milano e cerchiamo di rifletterci sopra. C’è stato, infatti, il concerto milanese di Andrea Bocelli. E, al solito, nel paese delle contese perpetue, dei guelfi e dei ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, Coppi Bartali, Tebaldi Callas, inni, elogi, insulti, contumelie da entrambe le parti, come chiamarle? Bocelliani contro antibocelliani. Esagerati, inadeguati, da entrambe le parti, critiche ed elogi. Ma che cosa c’era da inneggiare o da denigrare?

Chi si è sentito offeso dalla qualità, a suo dire, scadente, delle interpretazioni musicali, come s’è visto, colpisce un bersaglio sbagliato.  Perché la musica non c’entra. Lasciamo da parte anche gli ammiratori, gli entusiasti, perché anche costoro di fatto non ammirano la musica, non si entusiasmano per l’interprete musicale, ma per il personaggio.

Veniamo a quelli, invece, che difendono la scelta e la giustificano adducendo a motivazione una presunta “mediocrità” del pubblico italiano, e la sua scarsa cultura musicale, e ne convalidano l’attuazione adducendo la popolarità davvero “universale” del personaggio, come se in quella occasione si fosse dovuto – si noti: dovuto! – andare incontro al gusto di “tutti”, offrire un concerto a “tutti”. E’ invece proprio sull’interpretazione di questo “tutti” che bisognerà riflettere. La tentazione populistica è sempre dietro l’angolo, in un paese, come l’Italia, che non ha mai dato prova da parte della sua classe politica e amministrativa di scelte culturali coraggiose. 

Ma l’esempio newyorkese, citato poco sopra, non dice niente? Gli americani sarebbero dunque più colti degli italiani? O non sarà, piuttosto, che sono governati, almeno a New York, da una classe politica più attenta alla cultura? In realtà ciò non accade solo negli Stati Uniti. Trump non fa testo. Oltretutto non rappresenta la maggioranza degli americani. Almeno non come numero (il sistema elettorale americano è complicato e non è detto che chi vince sia chi ha ottenuto più voti). Ma, compresi i miliardari, la cultura ha negli USA un valore immenso, è coltivata, rispettata, obbedita. Checché ne pensi l’opinione comune dell’americano “ignorante”. Una famiglia Guggenheim in Italia sarebbe impensabile. Ci ha provato Olivetti, nel secolo scorso, e guardate che fine ha fatto. Ma restiamo in Europa. E Rostropovic al Muro di Berlino? E l’Inno Europeo (Beethoven!) all’elezione di Macron, in Francia? Scantono forse per un po’, ma credo di arrivare lo stesso al punto. Prima, però, passo in rassegna qualche esempio letterario.

Saramago ha scritto un romanzo bellissimo, da cui è stato tratto anche un buon film. In portoghese il romanzo s’intitola Ensaio sobre a cegueira, saggio sulla cecità. Einaudi l’ha tradotto e pubblicato con il titolo Cecità, perché un romanzo che s’intitola saggio, avrà pensato, il lettore italiano non lo compra. E che? Il lettore portoghese è più bravo, più colto del lettore italiano? Andiamo avanti. Uno scrittore francese raffinatissimo, Christophe Ono-dit-Biot, ha scritto un romanzo assai interessante, s’intitola Croire au Merveilleux, credere al meraviglioso. Il protagonista è un filologo classico che però per vivere fa il giornalista. Ma cita di continuo i filosofi e i poeti greci classici, in testa Senofane e Omero, e li cita direttamente nella loro lingua, il greco, tra parentesi poi, sotto, c’è la traduzione francese. L’editore è Gallimard, il più grande e autorevole editore francese. E’ stato tradotto in italiano da Bompiani. Naturalmente sono stati espunti i testi in greco antico e lasciata di essi solo la traduzione. Che cos’è? Al lettore francese si può proporre un romanzo che cita frammenti in greco antico e al lettore italiano, no? Il lettore francese è più colto del lettore italiano? Infine, e qui passiamo alla filosofia – pensate, alla filosofia, una disciplina scientifica – : Heidegger ha scritto una densa monografia su Nietzsche. Adelphi l’ha tradotta in italiano. Ma mentre nell’edizione tedesca i testi greci sono riportati in greco nell’edizione italiana è pubblicata solo la traduzione italiana. Adelphi! L’editore più snob, più “culturale”, a suo dire, che pubblichi libri in Italia.

E allora, quali sono le conclusioni da trarre? Che non è il pubblico, il lettore italiano a essere “mediocre”, incolto, come s’insinua a difesa di queste sciagurate, per non dire peggio, scelte in-culturali delle istituzioni pubbliche italiane, bensì che c’è, invece, una volontà di volerlo mediocre, di solleticare anzi i suoi istinti antintellettuali, istinti del resto tradizionali, e da secoli, nel popolo italiano.

Mica solo i nazisti hanno innalzato roghi di libri. Ed è con costoro che bisogna fare i conti. Con chi occupa cariche istituzionali e tuttavia asseconda tali istinti. E’ tutta la gestione della cultura, della ricerca, dell’educazione che in Italia va smontata pezzo per pezzo e ricostruita su altre basi. La cultura “per tutti” non significa, infatti, populisticamente (mica lo ha inventato Grillo il populismo italiano), abbassare il livello culturale della manifestazioni pubbliche, ma fare in modo che tutti possano accedervi, che a tutti sia concesso di accedervi e se necessario chiunque sia perciò aiutato  a fornirsi degli strumenti per accedervi, come vuole l’articolo 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.