La sommossa dei brand contro Facebook: basta razzismo

La Coca-Cola Company, insieme ad altre grandi aziende, ha deciso di promuovere una battaglia contro l’hate speech prendendo di mira i social network, considerati piuttosto carenti per quanto riguarda il controllo dei contenuti che ospitano. La campagna Stop hate for profit, che avrà inizio il primo luglio e durerà per tutto il mese, almeno in teoria, dovrebbe consistere in un vero e proprio tentativo di boicottaggio di Instagram e Facebook per mezzo di una drastica interruzione delle inserzioni pubblicitarie, che per le piattaforme di Zuckerberg costituiscono il 99% circa degli introiti.

Inutile dire che l’onda lunga della morte di George Floyd potrebbe aver contribuito ad aumentare il numero delle adesioni e a rendere più intraprendenti, nonché più aggressive sul piano strategico, le aziende coinvolte. Tra le quali spiccano anche Unilever, Verizon, Honda e Levi Strauss.

Per correre ai ripari e per sconfessare le accuse, il proprietario di Facebook non ha tardato nel replicare con fermezza alla sommossa dei brand, sottolineando, dati alla mano, come le sue piattaforme siano da tempo in prima linea nel contrastare l’incitamento all’odio: 290 organizzazioni inneggianti al suprematismo bianco sarebbero state bandite e il 90% dei contenuti meritevoli di censura verrebbero individuati prima ancora che si verifichino segnalazioni. Ma anche la reazione in Borsa, purtroppo per Zuckerberg, non si è fatta attendere. In concomitanza dell’annuncio ufficiale dell’iniziativa Stop hate for profit, il titolo azionario di Facebook, il social network con più iscritti al mondo, ha subito un’importante flessione (-8,3%) e lo spettro di un corposo ridimensionamento delle rendite pubblicitarie, che – nella fattispecie – coincidono con le rendite tout court, potrebbe comportare ulteriori perdite.

Tuttavia, e qui sta il punto, per costringere Zuckerberg e soci a temere per le sorti del proprio colosso imprenditoriale e a prendere, quindi, sul serio la protesta capitanata dalla Coca-Cola Company, probabilmente, il fronte dei boicottatori avrebbe dovuto mostrarsi compatto, largo e disciplinato. Un incastro di prerequisiti che al momento non trova riscontro: tra quelle citate, alcune aziende hanno solo ridotto i fondi per la pubblicità, senza tagliarli del tutto; altre hanno messo in pausa l’acquisto di advertisement su Facebook ma non su Instagram; altre ancora hanno effettuato tagli talmente insignificanti al flusso di capitali da destinare ai social da far apparire la propria adesione all’iniziativa antirazzista come meramente simbolica. Difficile, a tali condizioni, provocare il panico da buco di bilancio e stimolare le annesse contromisure desiderate.

Ragion per cui, nel raccontare questa vicenda, risulta quasi automatico il chiedersi se la stessa somigli realisticamente (per com’è stata venduta dai protagonisti) a un passaggio epocale nella storia della lotta al razzismo o se somigli di più, data la pronosticabile inefficacia, a una trovata di marketing ben congegnata, di quelle che servono a nascondere, attraverso un sapiente incantamento, gli aspetti più aberranti di alcune arcinote filiere produttive.

Capita spesso, in effetti, che per accaparrarsi nuove fette di consumatori le grandi imprese si cimentino in ardite operazioni di cosmesi. Basti pensare al fenomeno del Greenwashing: una diffusa strategia di comunicazione che, da una parte, consente a una qualsivoglia azienda di costruirsi un’immagine superficialmente rassicurante sul piano dell’impatto ambientale e che, dall’altra, contribuisce a distrarre il potenziale consumatore sensibile ai temi ecologici dagli enormi danni all’ambiente provocati dalle ordinarie attività di quella stessa azienda.

In questo caso, per analogia, si potrebbe parlare di Egalitarianwashing. Essendo la Coca-Cola coinvolta in una miriade di inchieste riguardanti episodi di discriminazione e di gravi violazioni dei diritti sindacali in Sud America, di sovrasfruttamento delle risorse idriche di territori afflitti dalla siccità in India, di sfruttamento indiretto della manodopera africana negli agrumeti in Calabria.

Ad ogni modo, non si sa se la campagna Stop hate for profit otterrà davvero qualche risultato tangibile o se si limiterà a fare il solletico a Zuckerberg. Ma non è da escludere, ad oculum, che la spremitura dei lavoratori dove non fa notizia e l’antirazzismo militante siano ingredienti difficili da miscelare con successo persino per chi detiene la leadership mondiale nella produzione dei softdrink.