Se Erdogan è un talebano, noi siamo ancora un po’ crociati
Partiamo da un presupposto: Santa Sofia appartiene a tutti. Come il Colosseo, come il Taj Mahal. Un gioiello che spiega la sindrome di Stendhal. Un incontro di culture, una storia a episodi, delle volte cruenti, delle volte pacifici.
Presupposto numero due: sappiamo chi è Erdogan. Erdogan il Sultano, quello che in pochi anni ha eroso come un cancro ogni traccia di laicismo lasciatoci da Ataturk, quello che perseguita le minoranze, che si è portato via la Turchia sotto un velo oscurantista. Una Turchia dove non si può nemmeno più contare sui militari, un tempo garanti del laicismo e dell’ordine, pronti a difendere i valori essenziali.
Erdogan in queste ore “si è ripreso” Santa Sofia, con un colpo di mano che tutto è tranne che un colpo di teatro. Ci pensava da tempo. Ora ci è riuscito. Ma, nei fatti, anche se è triste pensarlo, “Santa Sofia” è casa sua. Questo ferisce il mio profondo laicismo e quello di molti, mi preoccupa come storico, ma fino a quando Erdogan non ci impedirà di poter entrare in un gioiello simile, protetto dall’UNESCO, occorre calmare i bollenti spiriti.
In tal senso, ciò che inquieta è la levata di scudi della cristianità, anche di quella semplicemente “culturale”. Il “noi” sedicente civile, laico, pluralista. Perché, diciamo la verità, molti, fino a pochi giorni fa, ignoravano amabilmente Santa Sofia. L’avevano vista sui libri di scuola, ma andarla a visitare mai. “Turchia? Ma che ci vai a fare di bello in Turchia? Ma c’è movida? Ma il mare? E come si mangia?” La Turchia è un posto che molti non avrebbero mai scelto né per un viaggio, né per le ferie, né per un percorso di studi né per nient’altro.
Ora però, caro Erdogan, hai toccato Santa Sofia, hai toccato la “nostra” Basilica. E questo ci sconvolge. Pochi, davvero pochi l’hanno messa sul piano della tutela del bene culturale, del patrimonio condiviso, della questione UNESCO. In pochi, pochissimi addetti ai lavori, hanno posto il dubbio di dove finirà la tutela museale, perché un luogo divenuto museo debba essere riconvertito a luogo sacro; quasi nessuno si chiede se il flusso di fedeli possa mettere a repentaglio bellezza, storia e arte. Quello che rode ai più è che quel luogo sia tornato moschea. Sacrilegio. Che lì, dove la Vergine in trono, il Cristo Pantocratore, Leone VI, Costantino IX osservano il mondo immobili nella loro monodimensione, possano tornare i temibili Turchi, con le loro abluzioni, i loro richiami.
No, non abbiamo bisogno di un’altra faida tra cristiani e musulmani a Costantinopoli. E se Erdogan volesse darvi inizio starebbe a “noi” non darvi seguito se crediamo nel laicismo e nella democrazia. Peccato, però, che la stessa indignazione e lo stesso dolore non si siano mobilitati per ben altri scempi che l’oscurantismo islamista di Erdogan ha compiuto. Nessuno si è stracciato le vesti abbastanza per Helin, Mustafà e Ibrahim dei Grup Yorum, morti in sciopero della fame perché gli è stato impedito di suonare e di cantare, dopo essere stati trattati da terroristi. Nessuno si è addolorato abbastanza per i Curdi perseguitati dal Sultano, gli stessi che abbiamo mandato avanti a pararci il sedere con l’ISIS. Nessuno è sceso in piazza per le decine di giornalisti, studenti, attivisti arrestati e maltrattati da Ankara. Non è stato manifestato abbastanza orrore quando Erdogan ha augurato a una bambina innocente di diventare martire. Non abbiamo sostenuto i giovani di Gezi Park tanto quanto stiamo facendo con i Black Lives Matter.
E se proprio vogliamo parlare di bellezza parliamo anche di Hasankeyf, in Mesopotamia. Questo piccolo grande gioiello, che a ragion veduta dovrebbe figurare tra i Patrimoni dell’umanità, ha circa 12mila anni. Singolare la sua posizione e conformazione, con il suo ponte romano crollato che per secoli ha vigilato, imponente, sul Tigri; serafica, eterna, la tomba di Zeynel Bey che per cinque secoli ha affascinato chiunque entrasse in città. Tutto questo sta finendo sott’acqua, oppure fatto a pezzi per via della Ilisu Dam, la diga imponente voluta da Erdogan per presidiare il Kurdistan turco e togliere acqua alla Siria. Il caso della città venne portato all’UNESCO, che riconobbe “solo 9 criteri su 10” per tutelarla come patrimonio mondiale. Ebbene sì: in quel caso l’UNESCO non si è messa contro il Satrapo. Tutto sommato, per molti, Erdogan può strappare al mondo un gioiello simile: in fondo, parliamo di una minuscola città mesopotamica, con tanto di moschea, minareto e tanto altro di “turco”.
Ma Santa Sofia no, quella è un’onta che non si può tollerare, perché, diciamolo onestamente, il rigurgito crociato è sempre lì, pronto a venir fuori.
Il timore di chi concepisce quel luogo come un tempio di dialogo e convivenza pacifica è una carezza importante alla Turchia laica, ma tale timore rappresenta un “sentire” minoritario. I più si limitano a non volere che i musulmani si approprino di un posto che è “pure nostro”. Questo sentimento, questo riflesso incondizionato da Crociati, ci mostra che la strada è ancora lunga per tutti. E che di quella laicità e di quella pace che Ayasofya rappresenta(va), anche “noi”, non abbiamo ancora capito niente.