Recovery Fund, opportunità immensa e sfida improba

Lo scorso 21 luglio, al termine di un asprissimo negoziato, i 27 leader dei paesi dell’unione hanno trovato l’accordo sul piano Next Generation UE.
Si tratta di un programma di interventi finalizzati a rilanciare le economie dei paesi UE, mortificate dai lockdown disposti dai vari governi nazionali per fronteggiare la diffusione del coronavirus.

Tre sono gli assi portanti dell’azione, declinati a loro volta in priorità e campi di azione.
Il primo asse è definito “aiutare i paesi membri a riprendersi” e si sviluppa attraverso riforme, sviluppo rurale, coesione, resilienza, transizione ecologica.

Il secondo asse riguarda il rilancio dell’economia e il sostegno agli investimenti privati e prevede azioni a favore di settori e tecnologie chiave, investimenti strategici, sostegno alla solvibilità delle imprese.

Il terzo asse è finalizzato a trarre insegnamento dalla crisi e include azioni per la salute e la predisposizione di programmi per fronteggiare meglio le crisi future.

Appare evidente dai contenuti del programma che la Commissione, sotto la guida della tedesca Von der Leyen, abbia inteso cogliere la crisi come opportunità per riformare e rilanciare la struttura economica e dare nuovo slancio politico alla UE, prefiggendosi obiettivi ulteriori rispetto al mero riemergere dal buco nero della quarantena.

A riprova della dimensione riformatrice epocale del piano, per la prima volta nella storia della Ue, si è previsto di finanziarne gli interventi attraverso un debito comunitario. Il Recovery Fund, lo strumento operativo finanziario affiancato al bilancio UE, sarà costituito con denaro preso a prestito sul mercato attraverso una mega emissione di bond garantiti dal bilancio UE e rimborsati dalla Commissione. Questa, in sostanza, è destinata a divenire una sorta di Tesoreria Centrale Europea.

L’emissione di bond, che potranno essere acquistati anche dalla BCE, consentirà di raccogliere 750 miliardi di euro. Questa somma sarà erogata, tra il 2021 e il 2023, per 360 miliardi a titolo di prestito e per 390 miliardi a titolo di sovvenzione senza obbligo di restituzione.

Per ottenere le erogazioni dei fondi, gli Stati membri dovranno predisporre specifici piani di intervento, coerenti con quelli definiti dal Next Generation UE e con le raccomandazioni inviate dalla Commissione ai singoli paesi.

È previsto un meccanismo di opposizione ai programmi predisposti dagli Stati che però spezza il potere di veto degli stati più piccoli. L’ammissione al fondo, infatti, potrà essere bloccata solo col voto di 13 paesi su 27 che rappresentino il 35% della popolazione europea. Il parere finale, comunque, spetterà comunque alla Commissione.

Per l’accesso alle disponibilità del Recovery Fund è previsto, seppure in forma estremamente annacquata, il rispetto delle norme su democrazia e diritti civili. La questione riguarda in particolare Ungheria e Polonia, fortemente oppostesi a questo vincolo.

L’Italia

Secondo le stime all’Italia dovrebbe andare una quota di circa 210 miliardi di cui 128 a titolo di prestito e 82 a titolo di sovvenzione. Si tratta di un importo pari a circa il 12% del reddito nazionale, destinato a consentire investimenti quasi doppi rispetto all’ordinario, almeno per i prossimi tre anni.

Un’opportunità immensa, ma al contempo una sfida improba. La Commissione, infatti, chiede celerità, efficienza, rispetto delle priorità, tempi certi.

Il piano dovrà essere approntato e consegnato a Bruxelles entro la metà di ottobre e già emerge la inadeguatezza politica del Governo, come dei suoi oppositori, rappresentazione di un paese raggomitolato su stesso e imprigionato da antichi vizi.

Più che in un confronto serrato e fattivo sugli investimenti da realizzare, il dibattito politico è incagliato sulla gestione, anche detta governance, per provare a emancipare il concetto dalla sua interpretazione degenera, dei fondi che verranno.

Il Presidente Conte vuole investire della questione il fantomatico Ciae (Comitato Interministeriale per gli Affari Europei), da egli stesso presieduto, cui affiancare, manco a dirlo, un comitato tecnico ancor più fantomatico.

Qualcuno ha proposto una commissione bicamerale, salvo poi accorgersi che i tempi previsti dalla legge per la sua costituzione sono incompatibili con quelli per la presentazione del piano. Allora qualcun altro ha ideato la soluzione salomonica di istituire due commissioni, una alla Camera e una al Senato, così da poter coinvolgere l’opposizione, che tradotto significa poter spartire due poltrone di presidenza tra maggioranza e opposizione.

A latere, sui contenuti si registra il festival delle vanità. La riforma dell’inefficiente sistema giudiziario, raccomandazione della Commissione cui necessita dar riscontro, è totalmente esclusa dal dibattito in corso.

Per il resto c’è tutto, dal recupero infrastrutturale del mezzogiorno, alla macchina burocratica dello Stato da efficientare (anche su questo c’è una raccomandazione della Commissione), alla digitalizzazione. Ovviamente c’è chi mette sul tavolo la questione (decisiva per la UE) del climate change e quella connessa della green economy. Di formazione, scuola e sistema universitario, poi, si parla molto astrattamente.

Vito Crimi, il capo politico del primo partito di Governo, è smarrito e ha dichiarato: “dobbiamo decidere come spendere i 209 miliardi del Recovery Fund“. Chissà che non lancino un referendum sulla Piattaforma.

Intanto il tempo passa, metà ottobre è domani vista anche la complessità del documento da predisporre, e nessuno scrive nulla perché, pare di capire, nessuno ha un’idea di paese, un’idea di crescita, un’idea di industria e di sistema paese.

Troppo facile immaginare Rutte sogghignare.