Il terroir è morto, lo Chardonnay inglese è buono

Ferragosto inoltrato e rifletto sul fosso mancato di un assemblamento (sic.) semiobbligatorio con un’altra trentina di persone deportate di controvoglia in un’amena località montanobalneare dove mangiare male, bere peggio al suono infernale delle chitarre scordate e pensare tutto il male possibile degli organizzatori con maggior soddisfazione ancora, se parenti, amici o conoscenti odiati sin dalla più tenera età.

Insomma, in fondo sono felice. Il ricordo più bello di questa estate puttana è di una cena con un simpatico ingordo, con cui abbiamo condiviso cucina, vino pettegolezzi ed enogioia. Nondimeno gli incontri interessanti sono spesso occasione di fertile attrito tra neuroni e i vini bevuti hanno stimolato una riflessione da condividere.

In breve: il terroir, questa mescola magica tra capacità dell’uomo, storia di un luogo e caratteristiche climatiche o geografiche, che danno vita, senso e carattere al vino è morto. Finito, polverizzato, non esiste più. Destrutturato dalla rivoluzione digitale, un po’ come la parmigiana nei ristoranti stellati. 

Al pari dei giornali cartacei, del DVD, del CD e della pastiera anche il terroir è stato allegramente divelto dalla progressiva smaterializzazione del reale a favore del virtuale, in un processo inesorabile di alleggerimento e di furibonda confusione di ruoli, di stili, idee, concetti. Una nuova realtà entusiasmante ma pur sempre inquietante.

Ma torniamo ai fatti, alla fertile cena intellettuale con riflessioni annesse. La succulenta zuppa di pesce dolomitico, con autentici porcini del paesino dietro slovacchi è stata domata da un bel Riesling da battaglia, un po’ semplice ma affilato come le lame rotanti di Goldrake, che ha svolto egregiamente il suo compito.

In seguito, per accompagnare la leggiadra insalata di polpo, fagioli, cipolla dolce e peperoni – il cosiddetto piatto della seduzione – ho puntato sugli effetti speciali, ovvero: uno chardonnay (vitigno francese), coltivato secondo i principi della biodinamica (agrofilosofia tedesca), vinificato in anfora (tecnica georgiana) a Peasmarsh nell’ East Sussex, estremo sud dell’Inghilterra.

La bottiglia, peraltro ottima, incarnava quello che è un po’ il terroir moderno, un po’ di tutto un po’ di niente. Al bando denominazioni controllate, consorzi di tutela, bottiglie tipiche e marchi registrati, ma anche ubriaconi centenari, sdentati e rincitrulliti, ai quali chieder com’era bello dormire in 12 nel fienile, lottare per l’unico paio di scarpe disponibili e poi correre alla latrina in fondo al cortile sotto la pioggia gelida di gennaio.

Tutto divelto, scomposto, smantellato e rimasterizzato per produrre vini di conoscenza e non di tradizione. Insomma, bevevamo l’infame Mateus rosé all’università, eravamo precursori visionari come Bill Gates e non ce ne siamo accorti.

Urge recuperare: bere vini tedeschi prodotti con vitigni georgiani, mangiando gamberetti sudanesi, mentre si legge sul tablet un articolo frivolamente intellettuale pubblicato sul miglior magazine online italiano. 

Vino: QVEVRY WHITE 
Tillingham
Dew Farm, Dew Lane
Peasmarsh
East Sussex TN31 6XD