Vento portoghese dalla bottiglia aperta in Lussemburgo

La bottiglia l’ho comprata nel ventre torrido di un’estate assassina. Caldo soffocante anche in Lussemburgo, 35 gradi giorno e notte, foreste già striate di gialli autunnali in pieno agosto.

Io avrei voluto lavorarci in quel posto, e mi ero candidato come aiuto-sommelier. Un’enoteca con una filosofia di acciaio: vini artigianali ma senza sbavature, cuore in Borgogna testa nella Champagne. Francia, Francia e ancora Francia! Una tirannia feroce, in grado di portare al piacere assoluto attraverso un rigore kantiano: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse, il cielo stellato sopra di me, il vino di Francia dentro di me. (semicit. E. Kant)”.

La selezione sugli scaffali risponde agli ordini di un sommelier dotato di sadica precisione: Tristan Duval. Mi avrebbe massacrato qualche giorno dopo con un test-Golgota crocifiggendomi con i chiodi arrugginiti alle mie debolezze da amatore. È stato lui il giudice spietato del colloquio di lavoro: ne sono uscito con le ossa leggiadramente stritolate.

In un tripudio trionfale franco-francese, si infilano pochissime eccezioni. Insomma, per passare al setaccio gallico i vini devono essere davvero speciali: qualcosa di tedesco, un nulla italiano e una discreta presenza di Portogallo.

Il Portogallo, sotto forma di vino e cibo, è molto presente in Lussemburgo, voi direte: “eh la Comunità europea, eh gli studenti Erasmus, eh i lussemburghesi che ci vanno in vacanza poi si ricomprano le cose”. Ebbene nulla di tutto questo: muratori. Si proprio i “fravicatori” nostrani quelli con la caldarola e il cappello a barchetta fatto col giornale. Spiegone sociopolitico: a partire dagli anni sessanta il Lussemburgo – come altri paesi dell’Europa centrale – ha avuto forte bisogno di manodopera e ha stretto un accordo con il regime di Salazar per favorire l’afflusso di lavoratori (preferendo i cattolicissimi lusitani ai turchi, a differenza della Germania). I “fravicatori” di allora (le donne invece erano colf) sono ormai arrivati alla quarta generazione, si sono perfettamente integrati e consumano prodotti della madrepatria lontana.

E a me stanno simpatici, sia i portoghesi in carne ed ossa che i loro vini dai nomi evocativi e suadenti, come una poesia dribblante di Eusebio de Moraes: personaggio immaginario tra futbol e poesia, l’ho inventato io.

Il vino è il Gilda, Bairrada D.o.c. 2016. Bairrada, regione a nord di Lisbona sud di Porto: terra dei migliori vini lusitani. In queste lande calde di sole e battute da gelidi venti marini, Tiago Teles, sommelier, critico e autore di guide ha deciso di varcare il Rubicone e cominciare e produrre i suoi vini, naturali beninteso. In una recente intervista ha dichiarato: “Per fare vini naturali, è necessario avere una grande conoscenza delle uve che arrivano in cantina e degli equilibri che riusciamo a raggiungere in vigna. Faccio un’enologia preventiva, contrapposta a un’enologia correttiva, che si è diffusa nel nostro settore”.

Il Gilda è un rosso fresco che sa di estate e d’Atlantico ventoso: acidità spiccata frutti rossi delicatamente presenti e qualche nota inattesa, una specie di dissonanza sommessa che incuriosisce il palato e stimola la beva, probabilmente riconducibile a uve e tecniche di vinificazione davvero singolari.  Si tratta di un uvaggio – Castelão (50%), Merlot (35%) e Tinta Barroca (15%) – raccolto a mano, pigiato, macerato e fermentato spontaneamente nei lagares – enormi vasche di pietra dove l’uva viene pigiata con i piedi in un roboante rito collettivo – e infine affinato in botti di rovere da 300 litri usate di decimo passaggio. Un vino da bere a litri, non proprio economico per l’Italia, ma insomma ne vale la pena.

Ah, se avessi lavorato in quell’enoteca…

Il vino è reperibile on-line su questo sito https://bit.ly/2IpxaZT