Quarantena abitabile

Questo momento storico di clausura sta stirando le più profonde riflessioni esistenziali in ogni direzione.

Ci stiamo domandando tutti, più o meno, “chi sono, dove sono, cosa faccio qui, dove andrò a finire”. Dall’ondeggiante oceano, la folla, venne teneramente a me una goccia e con essa anche una sospensione del Tempo. Ogni momento imprevisto, con le scosse elettriche che produce, finisce per riportare lo spirito a una diversa dimensione esistenziale, che fornisce allo sguardo strumenti per sentire con un animo diverso.

In questi giorni, mi domando a quale livello di consapevolezza possa portare l’esasperazione temporale dell’abitare l’interno domestico. Questo nostos globale è la culla più calda e sembra l’unica zattera a disposizione al momento per galleggiare nella distopia in corso. Nell’essere forzati a vivere la propria dimora, ci si assopisce nelle poche attività che la casa sembra dare modo di svolgere. E l’abitacolo può sembrare soffocante a chi vorrebbe evadere dai propri pensieri.

La magia dell’Architettura è che conosce il potere creativo positivo dell’alterazione dello spazio per assecondare scenari diversi della vita umana. Si plasma la materia, ma pensando al vuoto; dei raggi convergono in un mozzo, ma è il foro centrale che ne determina l’utilità, insegna il Tao. Le case e le cose sono strumenti per assecondare le nostre azioni. Abbiamo il potere di cambiare un po’ del nostro mondo cambiando il nostro habitat. Una casa, un quartiere e una città sono principalmente la cornice che veicola le interazioni umane, come mezzo e scopo del diritto all’abitare.

Dalla stanza alla piazza, dal corridoio al vicolo, le forme create per supportare le attività umane modificano le possibilità e le percezioni. Lo fa ogni oggetto: una sedia, una finestra, un muro, una scala. Tra noi e questa multiforme realtà tangibile c’è un rapporto biunivoco di mutazione reciproca. La cura o il degrado mentale si riflettono nello spazio, e viceversa. Dando forma al nostro spazio fondiamo il nostro mondo.

Stiamo vivendo in modo più intenso che mai i nostri abituali spazi interni, le viste di città metafisiche, le prospettive dalle finestre con o senza vista, le solite posizioni da seduti. I balconi sono diventati stanze aperte per praticare interazioni di vicinato.

La maggior parte dei miei ricordi da bambina sono negli interni della mia casa materna. Al mio universo bastava la mia stanza, i miei giochi, i miei disegni e il lettore VHS con la collezione di videocassette. Ricordo perfettamente che mi divertivo a passare momenti di lunghezza indeterminata in angoli improbabili non destinati propriamente alla sosta, e da lì mi piaceva vedere come tutto mi sembrasse diverso.

La divisione interna e la disposizione dei mobili ci impongono un’esperienza precisa dello spazio e di come stare insieme agli altri.

Alcune ricerche architettoniche sulla configurazione degli interni domestici hanno cercato un centro di gravità. Un grande architetto americano del secolo scorso articolava gli spazi della casa a partire dal camino. Più recentemente un gruppo di visionari architetti cileni ha identificato nel tavolo il centro della vita domestica. La maggior parte delle nostre case contemporanee, invece, ruota intorno al televisore.

L’assenza di un tavolo nel luogo in cui abito attualmente è stato lo shock culturale più potente dei miei numerosi trasferimenti.

Se siamo consapevoli ed autocoscienti, ciò che decidiamo di far entrare in casa ci migliora la vita.

Un interno domestico è un dispositivo biopolitico sul nostro universo famigliare ed interiore. In privato, senza bisogno di troppi permessi e negoziazioni, siamo liberi di modificare gli strumenti dello spazio e agire su noi stessi o sulla nostra micro-comunità.

Questo momento è adeguato a interrogarsi sulla prospettiva domestica delle nostre case in cui si aggirano le nostre identità? Forse no. 

Forse è solo il momento di apprezzare il senso di protezione che offre una casa, per chi ce l’ha.

Possiamo però esercitarci ad Amare lo spazio che abitiamo e sentirlo come estensione di noi stessi. Un tale esercizio può guidarci a una maggiore consapevolezza verso i nostri spazi pubblici e la vita urbana collettiva?

In questa clausura meditativa abbiamo l’opportunità di riappropriarci del nostro spazio privato, di metterlo in discussione con benevolenza, di iniziare a guardare con occhi diversi tutto ciò che non vediamo più.

Magari non è un buon momento per dubitare dei luoghi privati e pubblici che condizionano le nostre abitudini, che sono tutto quello che vorremmo recuperare. Ma è il momento in cui abbiamo i nervi scoperti per percepire la nostalgia delle interazioni che in essi hanno la possibilità di avvenire.
In questi giorni possiamo appropriarci diversamente dello spazio delle nostre case per tornare a vivere con una nuova coscienza anche quello della città.