Bolle, sfere, schiume, lieviti di birra che fanno splash

È strano come improvvisamente il lievito di birra sia entrato prepotentemente nell’orizzonte visivo dei nostri appartamenti. Come i nostri arresti domiciliari lievitino per ampiezza e durata. Le bolle, le sfere, la schiuma, pervadono le nostre esistenze.

Il lievito di birra non è forse quella cosa che trasforma l’impasto di farina e acqua in schiuma?

Siamo accerchiati dalla metafora della schiuma ma non siamo attrezzati per interpretarla. Eppure abbiamo bisogno di metafore per non incorrere nel problema di chiamare le cose col proprio nome e dissuadere il mondo dalla possibilità del poetico.

Il Covid-19 ha perforato, come un “pappice con la noce”, la superficie liscia dell’unità del soggetto, la casa in cui la nostra psiche vive. La bolla dell’io ha fatto splash. La schiuma del sociale, che ci teneva saldati ad altri soggetti, si sta diluendo e ci sta dilaniando in un liquido amniotico senza feto. Una schiuma piena di liquido fecondo ma spento.

Da un’immagine molto simile sembra partire l’artista giapponese Kohei Nawa nella sua serie “PixCell”. Egli usa perline di vetro, prismi, colla, gesso e schiuma spray per coprire oggetti trovati e animali imbalsamati, animali tassidermici, tra cui cervi, ghepardi, conigli e coyote, in modo che i loro contorni originali vengano variamente distorti e ingranditi. Genera errori ottici su oggetti defunzionalizzati o su organismi morti attraverso l’applicazione di materiali che simulano una schiuma e che danno l’idea di lievitazione. È percepibile la sensazione di un organismo minacciato da un’entità esterna che assedia il suo sistema immunitario. L’artista spiega che, attraverso questo processo, l’esistenza dell’oggetto stesso è sostituita da “una bugia di luce, e viene mostrata la nuova visione, la cellula di un’immagine”. Il “PixCell” è un concetto che combina cellule organiche con pixel – le più piccole unità di un’immagine digitale.

Nelle opere di Nawa c’è un principio di nascita, ma è un’aberrazione. Allo stesso modo, l’Rna monofilamento del virus Covid-19 entra famelico nella sfera nucleica delle nostre cellule, nella bolla apatica delle nostre esistenze, per rigenerarsi attraverso l’e/orrore che produce una mutazione genetica casuale tra le varie particelle.

Poi, bisogna attendere che la bolla del soggetto faccia splash per ritornare allo stato di noggetto di cui parlava il filosofo austriaco Thomas Macho.

Era il 1922 quando Hugo von Hoffmansthal scrisse il suo capolavoro Lettera di Lord Chandos in cui si affrontava, perentoriamente, il tema della dissoluzione del soggetto, come ordinatore della realtà. L’epoca era pronta, la fisica quantistica ci spingeva a confrontarci con la tesi che “ogni cosa è indeterminata”. Anche l’unità sferica invalicabile del corpo è indeterminata e in attesa che lo spillover avvenga, che il passaggio di un patogeno tra corpi di specie diverse si compi e che l’unità del soggetto faccia splash .

Cos’è accaduto, in quel Novecento che continua a tormentarci con il suo volto di Medusa? È un intero orizzonte di senso che viene minacciato, pur nella differenza dei linguaggi, e che sembrava unificare l’intera esperienza contemporanea: è il paradigma di “immunizzazione”, il punto verso cui sembravano convergere le semantiche del diritto e della politica, della tecnologia e della medicina. Il tutto molto ben spiegato dal filosofo partenopeo Roberto Esposito.

Il programma dell’“immunitas” ha lo scopo di costruire bolle panoptiche da cui osservare il mondo essendone totalmente igienizzati. Un immane progetto di ingegneria architettonica e sociale che è stato totalmente rafforzato nella sua metafisica dall’attuale pandemia.

Le Corbusier ha usato l’immagine della bolla di sapone come metafora per spiegare l’essenza di un buon edificio: “la bolla di sapone assume una forma perfetta, se l’aria al suo interno è distribuita equamente e regolarmente. L’esterno è un prodotto dello spazio interno”.

Walter Benjamin, nel “I ‘passages’ di Parigi”, parte dall’assunto antropologico che le persone in tutte le epoche si impegnano a creare spazi interni ponendosi la domanda: “come fa l’uomo capitalista nel XIX secolo a esprimere il suo bisogno di uno spazio interno?” E la risposta è: utilizza la tecnologia più avanzata per orchestrare il più arcaico dei bisogni, la necessità di immunizzare l’esistenza attraverso la costruzione di isole protettive. L’idea è generare un mondo tagliando i ponti col Mondo.

All’epoca di Benjamin l’uomo optò per il vetro, ferro battuto in modo da costruire uno spazio interno che fosse il più grande possibile. In questo senso, il Crystal Palace di Joseph Paxton, costruito a Londra nel 1851, è l’edificio paradigmatico. Esso forma il primo iper-interno, capace di offrire una perfetta espressione dell’idea spaziale del capitalismo.

L’Illuminismo del XXI secolo non ha più bisogno di un tale spreco di spazio per rendere il Mondo un posto in cui vale la pena abitare. È sufficiente un’unité d’habitation, un numero accatastabile di celle abitabili. Attraverso il motivo della cella in-abitata è stato possibile sostenere l’imperativo sferologico da applicare a tutte le forme di vita umane senza il bisogno di una totalità cosmica. “L’accostamento di celle che vanno a formare un blocco di appartamenti, per esempio, non genera la classica entità casa-Mondo, bensì una schiuma architettonica, un sistema di camere molteplici costituito di mondi personali relativamente stabili”.

La sfera, insieme con la sua estroflessione in schiuma, come metafora che non siamo disposti a vedere nei nostri lieviti di birra, ha dunque principalmente a che vedere con la spazialità e la creazione di spazio. Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, autore che ha concettualizzato il concetto di schiuma come agglomerati di bolle, nella sua trilogia “Sfere” scrive: “La sfera è la rotondità dotata di un interno, dischiusa e condivisa, che gli uomini abitano nella misura in cui pervengono a essere uomini. Poiché abitare significa sempre costruire sfere, in piccolo come in grande, gli uomini sono le creature che pongono in essere mondi circolari e guardano all’esterno, verso l’orizzonte. Vivere nelle sfere, significa produrre la dimensione nella quale gli uomini possono essere contenuti. Le sfere sono delle creazioni di spazi dotati di un effetto immunosistemico per creature estatiche su cui lavora l’esterno”. Forse la migliore sintesi dell’esistenza umana ai tempi del virus.