Come vivremo insieme?

I titoli delle Biennali di Venezia degli ultimi due anni sembrano incredibilmente profetici e time specific. Al black humor inconsapevole di May you live in interesting times (possa tu vivere in tempi interessanti) di Ralph Rugoff della 58a Mostra Internazionale d’Arte 2019 ha fatto seguito l’interrogativo di Hashim Sarkis How will we live together? (come vivremo insieme?), tema della prossima 17a Mostra Internazionale di Architettura.

L’inaugurazione della Biennale è slittata a fine agosto, e intanto il mercato inizia a rispondere più velocemente di architetti e designer alle due principali esigenze del momento: ridurre i contatti e limitare l’esposizione al contagio, far ripartire l’economia di mercato per riattivare la macchina e permettere a tutti di sopravvivere.

Uscendo dalle stanze in cui ci siamo isolati, per ritornare a vivere insieme, alcune aziende stanno iniziando a proporre soluzioni di design in vista delle vacanze estive. Dei (brutti) fotomontaggi illustrano gli studi rispetto alla possibilità di fruire dei luoghi dello svago fondati sull’assembramento: come spiagge e ristoranti.

Le popolari immagini che mostrano recinti trasparenti disposti in serie in spiaggia suscitano un misto di inquietudine e sgomento. Lo stesso che, a mio avviso, potrebbe provare una persona del XIX secolo alla vista delle distese senza fine di elementi riprodotti in schiere modulari.

Il copia-incolla della produzione in serie si fece architettura-per-tutti e ospita tutt’oggi numerose attività umane: penso alle monadi dei grandi uffici, ai posti al sole in spiaggia con ombrellone e due lettini disposti secondo cardi e decumani, ai complessi residenziali con villette identiche ripetute senza fine in un unico lotto. L’ufficio di Playtime di Jaques Tati non sembra molto diverso dai render delle stanze vetrate nelle spiagge in concessione.

Eppure a questi tipi di spazi di lavoro siamo abituati, così come alla coercizione in spiaggia sotto un ombrellone in mezzo ad altre centinaia di unità uguali.

Quante famiglie lavorano per riuscire a vivere in una accogliente villetta uguale a decine di altre villette disposte in un parco privato, recintato e chiuso? In Cile, diversi anni fa, conobbi Casagrande, un complesso residenziale di villette unifamiliari a Peñalolén, e pensai che forse un accogliente alveare è tutto quello che le persone desiderano. Guardando i condomini da lontano in contrasto con la maestosa bellezza eterogenea della natura, però, qualcosa non mi convinse.

L’accampamento di gazebo vetrati in spiaggia cosa ha di diverso?

Quello che cambia e che rende inquietanti questi nuovi scenari è la materializzazione fisica del divieto di contatto in un ambiente vissuto per godere della libertà.

Il relax estivo ci piace cercarlo nell’isolamento nella natura selvaggia, in una spiaggia desolata, ma stare insieme agli altri in un acquario produce un misto di sensazioni a cui, ora, sembra difficile poter cedere. Immagino i bambini in queste innocue prigioni a schiacciare la guancia o il sedere sul vetro per non comunicare con i bambini dell’ombrellone a fianco.

Eppure noi umani siamo capaci di abituarci a tutto.

Ci siamo abituati a lavorare come criceti in distese di box con scrivanie, perché non dovremmo abituarci alla stanza vetrata a mare?

Le proposte di design in risposta alle necessità di tornare a vivere e a consumare tutti insieme, isolando in parte l’aria che respiriamo, in molti producono grande tristezza. Il tavolo al ristorante con i vetri a divisione dei commensali sembra un’installazione provocatoria da Biennale Arte. Come si può mai immaginare un pranzo al ristorante senza passarsi il pane o versare il vino al proprio vicino?

Il consumare qualche ora in spiaggia o a tavola divisi in cristallini cubi miesiani costruisce prigioni psicologiche proprio in quei luoghi in cui sembra che la distensione sia ancora possibile

Dunque, come vivremo insieme?

Per provare a rispondere su due piedi al quesito di Sarkis, sembra che finché un vaccino non potrà garantire la nostra immunità al virus più pericoloso del secolo non avremo la possibilità di vivere insieme, liberamente, come prima, pogando ai concerti o baciando sconosciuti disinvolti in discoteca.

Ma, una volta cessata la pandemia, sarebbe giusto riproporre il modello di “convivenza” precedente al lockdown globale?

Se osserviamo le prigioni organizzate in cui abbiamo speso ore e ore della nostra vita fino a un mese fa, infatti, è evidente che siamo ancora molto distanti da un ideale di organizzazione della vita collettiva adatto ad ospitarci dignitosamente, sia come specie che come individui. 

Siamo natura nella natura, ma continuiamo ad organizzarci come animali allo zoo. Ci serve una percezione diversa della vita e dello stare insieme per avere idee di design che ci permettano di ri-abitare il mondo.