Il mondo di mezzo tra impotenza e disfunzione erettile

Qualche anno fa ascoltando un servizio radiofonico riguardante regimi salutistici, rimedi ayurvedici e stravaganze omeopatiche, una giornalista menzionò come fossero necessari gli integratori alimentari e che in verità servissero solo a integrare il bilancio delle case farmaceutiche.

Uscita un po’ scherzosa, ma non ironica, che svela quanto sia vantaggioso instillare un bisogno, quanto sia profittevole il marketing della vitamina e del farmaco.

La sagace punzecchiatura evidenzia una questione che valica i confini della cura medica e coinvolge l’etica professionale dei vari attori del mercato della salute.

E’ giusto creare la necessità psicologica di vitamine spesso inutili? Quanto è etica la medicina difensiva?

Quanto più progrediamo con la certezza della scienza, tanto più invece si fa leva sulle pulsioni emotive. La paura, lo smarrimento, un dispiacere vengono fatti percepire come elementi accessori, inutili orpelli da poter smaltire con il giusto medicamento.

Ci si tende allora un filo, dipanato abilmente con argomentazioni medico-scientifiche, per lasciarci desiderare la nuova panacea e medicalizzare l’esperienza umana.

Ormai non è più un sospetto che Big Pharma crei non soltanto medicine, ma anche malattie. Questo metodo, che viene chiamato dispregiativamente disease mongering e può essere tradotto con il termine mercificazione della malattia, rappresenta un esempio di operosità commerciale volta ad associare una malattia a un farmaco.

Di cosa si tratta in pratica?

L’industria farmaceutica medita, lavora e sperimenta strategie con il nobile intento di eliminare lo stigma di una condizione medica.

Non si sente più nominare, ad esempio, la parola impotenza: è un termine carico di valenza negativa che compromette l’idea di virilità maschile ed è più difficoltoso da veicolare in campagne di health awareness (consapevolezza sanitaria, come sono eufemisticamente chiamate negli USA e in Nuova Zelanda le pubblicità di farmaci dirette al consumatore/paziente) o in un consulto paziente-medico. L’acronimo DE (disfunzione erettile) risulta quindi più accettabile e rimanda tutt’al più a una condizione di una perdita fisica recuperabile con trattamenti farmacologici.

E’ encomiabile del progresso scientifico, ma anche profittevole, elevare a dignità medica un bruciore di stomaco e curarlo subito con farmaci destinati in origine per l’ulcera: la creazione dell’Istituto Glaxo per la Salute Digestiva, nato all’inizio degli anni 2000, aveva lo scopo di creare consapevolezza sulla gravità del reflusso gastrico e tale mossa aiutò l’azienda a far vendere Zantac non più esclusivamente per l’ulcera, ma anche e soprattutto per il reflusso gastrico.

Nulla da eccepire visto che il GIDH (Glaxo Institute for Digestive Health, ora non più esistente) sponsorizzò effettivamente con dei bandi sostanziosi la ricerca nell’area della salute gastrointestinale.

Ogni disturbo, insomma, è trasformato in brand per moltiplicare il consenso sia internamente alla comunità medico-scientifica, sia esternamente, tra i “pazienti; dopo un confronto promosso ad arte si medicalizza quindi una condizione non patologica, inaugurando un nuovo mercato per una medicina già nota, ma usata in primis per la cura efficace di malattie serie.

Come per analogia, Big Pharma si rivela un moderno Bellerofonte che con Pegaso, il cavallo alato di Zeus, ha la missione di uccidere la mostruosa Chimera. Forse per impeto, o forse per eccesso di zelo, questo eroe positivo però vede troppi mostri a tre teste e quasi viene il sospetto che se li procuri ad arte per vantarsi con tracotanza della sua abilità e continuare così nella sua pugna, senza, invero, motivo alcuno.

Voglio, invece, ancora credere che Big Pharma si comporti come un palombaro e che, come dice Dacia Maraini a proposito del mestiere dello scrittore, porti in superficie oggetti nascosti, sfidando il pericolo degli abissi.

Un palombaro che non inventa nessuna malattia, ma che pesca nell’inconscio collettivo e fa emergere con neutralità le verità nascoste, i nostri disagi emotivi, quasi che voglia battezzare le fragilità emerse.

Diventa allora naturale giustificare la moltitudine di disturbi mentali del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Tanto che questo volume ha raggiunto negli ultimi anni un bel peso, incutendoci timore solo a pensare a quante malattie mentali si siano aggiunte di recente e quante pillole ci siano.

Un onesto vantaggio nel branding di una malattia si è avuto negli anni ‘70 per il trattamento di attacchi di panico con una benzodiazepina.

In effetti, i pazienti che soffrivano di questo disturbo venivano erroneamente curati dai cardiologi (per la tachicardia, uno dei sintomi) e solo con ricerche poi promosse dal Dr David Sheenhan e finanziate da Upjohn ci si rese conto che il trattamento d’elezione per tale condizione è lo Xanax, cioè un semplice tranquillante.

E’ forse questa l’unica nobile eccezione alla mercificazione della malattia?

Chissà.

I confini tra salubrità e malattia continuano artificiosamente a farsi sempre più sfumati.

I clienti del mercato della salute sono una merce preziosa, una commodity che va educata e guidata verso il percorso della verità con la health awareness, ma non possiamo permetterci di ignorare l’esistenza di un opaco mondo di mezzo tra molecole e malati veri.