La Liberazione è reale solo se è permanente

Da sempre nutro un amore ambivalente e contrastato verso il 25 aprile.
Da una parte, com’è ovvio, provo immensa riconoscenza per chi – comunista, socialista, cattolico, repubblicano – diede la vita affinché noi potessimo ancora pensare liberamente, parlare liberamente, amare liberamente, camminare liberamente per le strade del mondo.

Dall’altra, la bellezza malinconica di questa ricorrenza – in tempi di lockdown forse ancora di più – suscita in me anche tanta amarezza, perché, dal 26 aprile 1945 in poi, il processo di liberazione avviato dai partigiani venne bruscamente interrotto. I migliori uomini e le migliori donne della resistenza sapevano bene, per dirla con Horkheimer, che «chi non vuol parlare di capitalismo deve tacere anche sul fascismo» e che, dunque, la fine del giogo nazifascista sarebbe dovuta essere solo il primo tassello di una liberazione ancora più profonda e universale, senza la quale altre dittature, altre patologie sarebbero arrivate, come sempre accade nelle fasi di putrescenza del capitalismo.

Purtroppo, come sappiamo bene, la storia d’Italia, d’Europa, del mondo ha imboccato un sentiero molto differente. Dopo il conflitto mondiale al passo dell’oca, ai roghi di libri, alla dittatura aperta, se n’è sostituita un’altra più subdola, perché invisibile, più efficace, perché lascia intatte le nostre libertà formali, più spaventosa, perché non potrebbe funzionare senza la nostra collaborazione e il nostro implicito consenso.

È una dittatura che, dietro il velo di Maya dei diritti civili e delle libere elezioni, ha permesso ai fascisti di piazzare ordigni nelle stazioni, ai governi di massacrare studenti e operai in piazza o di esportare la democrazia a suon di bombe, agli industriali di affamare e di inquinare, al potere di tramare con mafiosi, servizi segreti deviati, frange militari eversive, pur di perpetuare se stesso e mantenere immobile lo status quo.

Questa dittatura soft, fatta di cieco produttivismo, di ottuso consumismo, del feroce conformismo che già atterriva il Pasolini corsaro, da settant’anni spinge l’Italia e il mondo intero in una folle corsa contro il muro, e rende noi cittadini inermi pupazzi di un crash test impazzito. Agli occhi di un partigiano, probabilmente, tale dittatura sarebbe sembrata anche più terrificante dell’incubo nazifascista, perché i suoi meccanismi perfetti costringono all’impotenza chi dissente; perché la natura impersonale del nemico, decenni di “benessere” materiale (certo più diffuso in Occidente dal dopoguerra, ma mai davvero generalizzato), di lavorio ideologico sulle masse, non consentono più nemmeno di immaginarla la prospettiva dell’azione liberatoria collettiva.

D’altronde la liberazione non è mai un fatto semplice, che si inventa dall’oggi al domani: è sempre, insieme, un processo interiore, perché bisogna scoprire di non essere liberi, sentire il dolore di non essere liberi, per poter maturare il desiderio di liberarsi; un processo collettivo e reciproco, perché nessuno si libera da solo, e nessuno si salva se gli altri vengono lasciati indietro; un processo che deve generare gioia, non solo e non tanto nell’ottenimento del risultato quanto nel suo stesso faticoso svolgimento; è, infine – non lo si ripeterà mai abbastanza – un processo che non finisce mai e, appena ci si convince del contrario, quasi sempre si è ricondotti con violenza alla situazione di asservimento da cui ci si era liberati con tanto sforzo.

Tutto questo, oggi, noi figli della fine della storia lo abbiamo dimenticato e, anzi, le generazioni più giovani, sottoposte alla lobotomia del modello unico neoliberale, non hanno proprio avuto la possibilità di apprenderlo, neppure de relato. E così ci ritroviamo nella condizione di schiavitù peggiore, quella di chi, rinchiuso nella caverna platonica senza neanche accorgersi delle sue catene, non può desiderare di liberarsi, né tantomeno concepire gli strumenti e i mezzi per farlo.

La differenza tra il nostro quadro storico e quello in cui maturò la liberazione spiega, in qualche modo, l’apparente paradosso evocato dalle vecchie foto, dalle commoventi lettere dei partigiani: nonostante l’angoscia di una morte probabile, talvolta certa, nonostante i vestiti laceri, le privazioni, la miseria nera, quelle donne e quegli uomini sembravano più compiuti, più sereni, più felici di noi.

E in qualche modo, se felicità è l’εὐδαιμονία greca, l’essere in compagnia del proprio demone e non tradirlo mai, quelle donne e quegli uomini felici lo furono davvero – a volte lo affermano loro stessi, scrivendo ai propri cari –, perché, a differenza nostra, restarono liberi sempre, anche se circondati da SS e squadracce; perché, condividendo con i compagni lo stesso ideale, non furono mai davvero soli come possiamo esserlo noi in certi affollati aperitivi; perché credevano che il futuro non fosse già scritto, mentre il nostro orizzonte è ormai un tetro, eterno presente, al punto che, come scrive Fredric Jameson, «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».

Sta tutto qui, a mio avviso, il limite e insieme il senso profondo del 25 aprile: senza una liberazione intesa come processo quotidiano, permanente, mai concluso, la vita dell’uomo, anche la più facile e opulenta, rischia di trasformarsi in un guscio vuoto e di somigliare paurosamente a quella di un animale in cattività: se la gabbia è spaziosa, il cibo sufficiente, gli svaghi divertenti, ci si può persino dimenticare di essere in gabbia. Ma appena si vede un uccello volare, si comprende di colpo che il proprio è solo un simulacro di esistenza. E questo, naturalmente, senza mai dimenticare che le sbarre della gabbia possono sempre restringersi, le condizioni del proprio assoggettamento improvvisamente peggiorare.

Un’evenienza che dovrebbe esserci dolorosamente chiara, in questo triste 25 aprile di quarantena, paralizzati e isolati da una pandemia che sempre più si rivela sintomo delle gravi contraddizioni del nostro ordine sociale; che dovrà necessariamente esserci chiara, se intendiamo cominciare a desiderare, e a pianificare, le liberazioni che verranno.