Il ritorno di Silvia Romano tra esultanze, perplessità e abomini

Silvia Romano, dopo un sequestro durato la bellezza di 15 mesi, è stata liberata ed è tornata in Italia. Sorridente, rassicurante, addirittura convertita all’Islam. Non obbediente allo schemino dell’immaginario qualunquistico nostrano che l’avrebbe preferita affranta, provata, devota a ben altre divinità, con un outfit meno esotico, magari in linea con il sobrio dress code dello scampato pericolo.

Una sequenza di stonature davvero imperdonabili. Un quadretto a bassa digeribilità, capace di scatenare nel bel mezzo dei festeggiamenti una fulminea tempesta di merda, di quelle che, per ferocia, ti fanno confondere Sallusti con Voltaire. A futura memoria: nulla è più caro a questa nazione della libertà di delirare in santissima pace e con prontezza, diremmo pavloviana, di riflessi.

Da commissari tecnici congelati, gli italiani, quelli col certificato DOCG di italianità, hanno voluto improvvisarsi, sbavando, commissari della spending review. Quegli stessi italiani che sostengono estatici il partitone sovranista che li ha defraudati di 49 milioni di euro, che accettano impassibili – da decenni – una sistematica politica degli sprechi, che abbassano la testa ogni volta che dovrebbero rivendicare trasparenza, proprio in questa circostanza hanno preteso un’accurata rendicontazione: quanto sarà costata alle finanze pubbliche la libertà di Silvia Romano, “l’ingrata” Silvia Romano?

I letamiferi, forse per distrazione, ancora non divulgano una tabella esaustiva del rapporto costi-benefici. Per cui, ancora non riusciamo a capire oltre quale cifra non bisognava spingersi. L’importo che avrebbe consentito allo stato italiano di fare ragionevolmente schifo e di dichiarare fallita la trattativa per il riscatto continua a sfuggirci, ma è un nostro limite. Un limite buonistico, si intende.

Tuttavia, per completezza, va detto che il coro dei guastatori di feste si è dimostrato largo, più largo della pur nutrita cerchia dei lanciamerda specializzatisi in contabilità del salvataggio, comprendendo anche i puntualissimi amanti della decontaminazione istituzionale. I quali c’hanno tenuto a precisare che, al di là del tasso di piacevolezza di certe conversioni e dall’entità dell’esborso, non è accettabile in nessun caso che uno stato sovrano effettui un versamento a un’associazione terroristica. La buona reputazione e la credibilità delle istituzioni italiche vanno difese a qualunque prezzo. Per non parlare poi del pendio scivoloso che si andrebbe a intraprendere nell’assecondare il sequestratore di turno, con gli italiani all’estero condannati a trasformarsi in automatico in appetibili ostaggi grazie ai quali spillare soldi alle nostre finanze pubbliche.

Ovviamente, i puntualissimi amanti della decontaminazione istituzionale sono gli stessi che tacciono quando si tratta di finanziare, per forniture energetiche o per la gestione del traffico migratorio, regimi illiberali che violano i diritti umani e che fanno sparire oppositori politici. In questi casi la santità delle istituzioni può andare tranquillamente a farsi benedire. I criminali, quando sono potenti e hanno un regolare esercito, non sciupano la reputazione di chi ci fa accordi.

Ma è possibile (chiediamo sommessamente ai puntualissimi amanti della decontaminazione istituzionale) che per uno stato il garantire l’incolumità e la sicurezza dei propri cittadini, ovunque essi si trovino, rappresenti un fattore di difesa della propria credibilità più rilevante di un ottuso atteggiamento menefreghistico di non patteggiamento con il nemico?

Inoltre, siamo proprio sicuri che codesti sostenitori della linea dura non si sarebbero ammorbiditi se si fossero trovati al posto di Silvia Romano o se avessero avuto un legame familiare, sentimentale, d’amicizia, con Silvia Romano?

Chissà. Dal canto nostro, abbiamo pochi dubbi: raramente il denaro pubblico è stato utilizzato con tanta intelligenza.