Tradizione a tavola: Langone e il collasso della Von der Leyen

Ciascun infedele dovrebbe essere devoto alla Preghiera di Camillo Langone. Orazione salvifica, antidoto all’untuosità del polically correct, al conformismo, al ben pensare. La Preghiera, pubblicata sul Foglio, è la cesoia che taglia la fune dell’Amaca e paradossalmente ne salva l’occupatore.

Qualche giorno fa, trattando di gastronomia, che è materia cara al nostro quanto la religione, l’arte e la letteratura, Langone ha chiuso così: “bisognava amarla quand’era viva la tradizione“.

Pretesto della riflessione liturgica, la diffusa opinione del ritorno a una ristorazione regionale, radicale, ancorata agli schemi d’osteria e alle radici del gusto italico, che la crisi post coronavirus determinerà. Una salubre sterilizzazione, insomma, dall’infezione del pop-radicalchic, dell’artificiosità, della ridondante vacuità. Un rimpatrio nell’alveo originario della ricchezza peculiare e tradizionale della gastronomia italica.

Il timore di Langone è che manchino i presupposti. Sono stati spazzati via dai banchi dei mercati, dalle dispense delle osterie e dal gusto dei commensali ingredienti essenziali a quelle radici e alla tradizione: frattaglie, sangue, cacciagioni, quarti tagli, carni ovine, rape, cardi, tordi e via discorrendo. Ci sentiremmo di aggiungere la nostra ipotesi sulle cause: il tifone di moralismo, salutismo, minimalismo, burocratismo, fuffismo, vegetalismo nonché di bromatologia da strapazzo e bulimia legiferante di timbro europeo.

Grazie a dio (senza maiuscola, trattandosi di mera espressione retorica) non tutto è andato perduto. Va fugato il sospetto di Langone e sostenuta la speranza. Esistono nel paese numerosi anfratti in cui, spesso meravigliose ostesse, servivano e son certo serviranno le più tradizionali e strafottenti (della burrasca di cui sopra) pietanze: penso alle oche e ai fegati serviti dalla dolce Elena in Lomellina, alle trippe e al biroldo di sangue rappreso dell’affettuosa Patrizia in Garfagnana, ai capitoni e alle anguille di Sossio e Filomena dell’hinterland napoletano e avellinese, ai fegatini deliziosi cucinati da Filindo in Molise, a un’epica scorpacciata di rane a Monte San Biagio.

Per non parlare delle vietatissime lumache di mare che Maria pare portare sospese sulle tette mentre si sposta tra la cucina i tavoli a Pozzuoli. In Calabria, scesi dalla magnifica chiesa bizantina Cattolica di Stilo si può ascendere all’olimpo del gusto col capretto di Natalina. Tra Rotondella e il mare del golfo di Policoro ci si ferma a mangiare un dolce alla crema di ceci dopo un agnello superlativo. In Abruzzo, a Civita d’Antino, il carrello dei formaggi porta a spasso erborinati naturali, abiurati dalla legislazione UE, alla cui sol vista Ursula Von der Leyen cadrebbe in deliquio per l’orrore (suo). Per finire, giacché citato in Preghiera, il castrato a Castel San Pietro Terme non manca mai, dopo le tagliatelle al ragù (bolognese), si intende.

In tutti questi luoghi, vini schietti, poche etichette, per lo più locali, quando non brocche di ottimo vino della casa, umanità, atmosfera e figure soldatiane, uomini soli, donne spesso in gonna e ciarle sguaiate, seni straripanti, culi ghiottoni, occhi ammiccanti. Silenzi e improvvisi profluvi di parole. Grappini e bacini.

Luoghi immuni dalla corruzione funesta degli “ismi” contemporanei. Fervidi, per lo più, tra l’autunno e l’abbrivio di primavera. In estate mai. L’estate è disumana, assorbe il buono e il sublime, essuda il peggio.

La tradizione, insomma, è recondita, ma viva e diffusa nel Paese. È da scoprire. E non è che non ci siano clienti, sono pochi, grazie a dio (di nuovo). Speriamo sopravvivano tutti al virus.

Ci sarà ancora da scoprire e riscoprire, gentile Camillo. Ne riparleremo, spero, davanti un piatto di ammugliatielli.