Quando il razzista è un Nobel

Anche un vincitore del Nobel può cadere nell’errore di giudicare dalle apparenze e regalarci considerazioni del tutto prive di una valutazione scientifica. Tanto più grave quando certe linee di pensiero provengono da uno scienziato illustre come lo statunitense James Watson, un rivoluzionario in ambito biomedico.

Fin dal 2007 le sue affermazioni controverse hanno avuto l’ambizione di scaturire da studi sulla genetica e la più nota è certamente quella che mette in correlazione il quoziente di intelligenza con la “razza”

Secondo Watson l’evidente differenza nell’IQ tra “bianchi e neri” è dovuta alla genetica, dimenticando clamorosamente che correlazione non significa necessariamente causa. 

Appare sorprendente come fatti scientifici, quali i risultati oggettivi di un test sull’intelligenza, possano essere distorti da un Nobel che li interpreta, in questo caso, basandosi esclusivamente sul colore della pelle; appare ancora più sorprendente che Watson, avendo tutto l’acume per continuare nell’indagine, non si sia chiesto se le persone bianche e nere possano essere davvero esposte nell’arco della propria vita agli stessi stimoli o se abbiano le stesse opportunità per sviluppare le abilità che concorrono a far essere una persona intelligente. 

Insomma, lo scienziato è rimasto vittima, si spera, di un abbaglio che possiamo capire solo in parte. Perché pur basandosi su una indagine scientifica, non tiene conto dei fattori ambientali attraverso cui l’intelligenza può o non può rafforzarsi. 

Ironicamente Watson, che è bianco, non è abbastanza perspicace per guardare oltre i dati offerti dal test e vorremmo sapere a quale bizzarra conclusione arriverebbe sapendo che il numero di film in cui nel corso degli anni appare Nicolas Cage correla benissimo con i casi di annegamento in piscina, o anche che il consumo di mozzarella correla altrettanto egregiamente con il numero di dottorati in ingegneria civile.

Ma si sa, ognuno vede ciò che vuole osservare o addirittura vorrebbe vedere ciò che non esiste.

Usare l’ironia diventa allora l’unica arma, indispensabile di fronte a tanta sicumera, come ha fatto brillantemente un noto comico di colore, Arsenio Hall, primo conduttore di colore di un TV show degli anni 90, che si presentò agli spettatori con una freddura e prendendoli in giro dallo schermo disse con un sorriso: “Non cercate di sintonizzare meglio la TV, sono nero!”, stando appunto a significare con una battuta davvero sagace che non è possibile “sintonizzare” la realtà che si vorrebbe percepire adattandola ai propri gusti. 

Non certo sorpresi dai recenti tumulti dovuti all’agghiacciante uccisione di George Floyd, è chiaro constatare che nella società contemporanea manca il valore dell’inclusione, della ricchezza che solo la diversità ci può offrire. 

E’ sbagliato alzare barriere tra bianchi e neri, cinesi e messicani, mediorientali ed europei. Si può invece vivere insieme valorizzando la linea di confine dove si intrecciano le diversità. Anche per un vantaggio pragmatico, di reciproca utilità, oltre che per ragioni di etica sociale.

Non si deve costruire un muro tra i popoli, ma valorizzare il margine, proprio come quello che delimita il bosco dai terreni coltivati, un luogo di confine e di integrazione dove si fonde l’energia della selva ombrosa con l’energia dei campi assolati; un margine come un abbraccio che non delimita compartimenti.

James Watson, a distanza di anni, ha comunque riconfermato le sue affermazioni con una neutralità sorprendente e non c’è da dubitare che sia davvero convinto della sua fredda visione razzista. Una visione razzista lontana da intenti provocatori, non connotabile come apertamente malvagia, ma offerta in qualità di dato “scientifico”, quindi, forse, ancor più pericolosa.

La scienza della razza, purtroppo, non scomparirà presto, in quanto è utile per giustificare scelte politiche, creare barricate e identificare meglio e più rapidamente i nemici; malauguratamente c’è un revival di questa cattiva scienza che è da stigmatizzare non solo perché politicamente scorretta, ma, soprattutto, perché, scientificamente scorretta in termini di rigore.

La più grande preoccupazione, tuttavia, non si sostanzia nel redimere Watson, che evidentemente non si nasconde affatto dietro un dito, ma risiede nella seduzione che il mito della superiorità della razza può ancora esercitare, anche in forma di mero automatismo, sulla collettività.

Così Karl Stojka, prigioniero sopravvissuto ad Auschwitz, a proposito della banalità del male: “Non sono stati Hitler o Himmler a deportarmi, picchiarmi, ad uccidere i miei familiari. Furono il lattaio, il vicino di casa, il calzolaio, il dottore, a cui fu data un’uniforme e credettero di essere una razza superiore”