Il voto di italianità

Una parola che si può facilmente incrociare di questi tempi, anche in preda a uno zapping pigro e svogliato, è italianità. Come riportato dal vocabolario Treccani, la parola indica “l’essere e il sentirsi italiano”, considerando gli aspetti linguistici, culturali e di costume legati al Belpaese.

L’impressione che si ha oggi, però, è che il senso di questa parola riguardi sempre di più un’appartenenza per discendenza e sempre di meno il sentirsi parte di una comunità. Per quanto riguarda la cittadinanza, d’altronde, chi discende da una famiglia italiana (e non c’è limite di generazione che tenga) e nasce in uno stato estero in cui vige lo ius soli, avrà vita ben più facile di chi in Italia ci è nato e cresciuto, ma da genitori stranieri. Basta ascoltare un politico, guardare la tv, comprare una birra, per rendersi conto che, nel dubbio, è sempre meglio essere italiani al 100%.

L’italianità così intesa sembrerebbe oggi un metro di giudizio fondamentale, come nel programma Little Big Italy diffuso sulla rete televisiva Nove, il cui animatore è lo chef romano Francesco Panella.

Lo scopo della trasmissione è individuare il migliore ristorante italiano all’estero, da Parigi a Miami. Per stabilire il vincitore c’è il voto alla cucina dei concorrenti, ma il criterio più importante e insindacabile da rispettare per ottenere la vittoria resta quello dell’italianità, criterio affidato esclusivamente alla capacità di discernimento di Francesco Panella.

Inutile dire che se immaginassimo un corrispettivo tedesco della trasmissione, in cui il presentatore dà un voto da 1 a 10 al partecipante che risulta essere più tedesco degli altri, avremmo forse un brivido lungo la schiena.

Un elemento di valutazione che sorprende guardando Little Big Italy è infatti il tentativo costante di esaltare la purezza, l’originarietà, l’incontaminatezza assoluta delle merci e delle ricette.

Certo, nessuno ama preparare pasta e ketchup (e chi lo fa non lo racconta), ma la domanda è la seguente: che senso ha, allora, l’essere altrove? È sano reputare migliore un’idea che non entri minimamente in contatto con il territorio, con il posto in cui si sviluppa? Perché allora pretendiamo che gli altri debbano adattarsi qui? Quando sei a Roma fa’ come i romani, si dice. Ma pure quando sei a Santiago del Cile? Non ci sarà troppo etnocentrismo in questa visione del mondo?

Dare un voto di italianità oggi non può essere un’operazione neutra, al di là del campo gastronomico, se non si chiarisce che cosa significa. L’Italia, non avendo mai fatto veramente i conti con il suo passato coloniale, e avendolo comodamente e furbescamente relegato sotto l’etichetta di esperienza breve e minore, spesso ignora la memoria che questo concetto può richiamare, specie se riferito alla storia di un regime non poi così distante nel tempo.

Il rischio ulteriore dell’uso corrente di italianità è quello di intendere una società chiusa in categorie separate e prive di contatto: noi/loro, purosangue/nuovi italiani, nativi/stranieri. La società però cambia, evolve ed è permeabile; e anche se il mondo dei media è univoco in fatto di provenienza (e sostanzialmente all white), la società avrebbe tante voci diverse da offrire, che vogliono essere ascoltate.

La globalizzazione, con il suo impatto massivo sulla disuguaglianza sociale, ha chiarito una volta per tutte che i nostri destini di essere umani sono interconnessi (si pensi per esempio al riscaldamento globale) e che è limitante intendere la nostra identità come rinchiusa in una frontiera, perché la nostra è oggi una “identità terrestre”, come l’ha definita il sociologo francese Edgar Morin. Non per accettare passivamente l’omologazione, né per rinunciare alla propria unicità ma, sempre secondo la teoria di Morin, per considerare tanto l’unità del molteplice quanto la molteplicità dell’uno, la coesistenza di diversità e uguaglianza.

Uno sforzo di decentramento sarà allora necessario per approcciarsi alla complessità del mondo, e di conseguenza del nostro paese. Ecco cosa scriveva Pier Paolo Pasolini 45 anni fa di Giorgio Bocca:

“Ma se Bocca …va a dire: «In Italia si parla l’italiano» a un alto-atesino o a un friulano, non può che aspettarsi che l’alto-atesino o il friulano, giustamente, gli rispondano: «Crepa.» Il fatto è che in Italia si parla l’italiano e il tedesco, l’italiano e il friulano. Chi non sa e non ammette in ogni istante della sua vita questo, non sa cos’è un rapporto democratico, né umano, con gli altri”.

Tante cose sono cambiate nel frattempo, ma la lezione di Pasolini resta attuale, e la sua attualità è proprio in quella congiunzione “e” che il poeta inserisce tra italiano e tedesco, italiano e friulano. Una congiunzione alla base del rapporto umano.