La ricetta del PD padanico: prima il Nord e gabbie salariali

C’è un filo nascosto che unisce il sovranismo bifronte della Lega e la sinistra padronale. Quel filo si chiama nordcentrismo. E la crisi economica dovuta all’emergenza Covid, che si preannuncia leggendaria, lo renderà visibile a occhio nudo. Già se ne scorgono le tracce. Con gli spin doctor a fare a gara nell’impacchettare la comunicazione dei propri politici di riferimento orientandola, mutatis mutandis, verso il giusto ordine delle cose. Il solito. In cui “il Nord deve ripartire prima e il Sud può anche aspettare”. Parola di Bonaccini, governatore piddino d’Emilia. In cui “è intrinsecamente sbagliato se, a parità di ruolo, il dipendente pubblico guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, nel senso che il costo della vita nelle due realtà è diverso”. Parola di Sala, sindaco dem del capoluogo della regione Lombardia. In cui “è giusto pagare di meno i medici calabresi perché sono meno bravi”. Parola della brillantissima Ceccardi, candidata leghista alle elezioni regionali in Toscana.

Dunque. Bonaccini, Sala, Ceccardi. Il triangolo industrioso. Tutti e tre schierati per il patriottismo a tutele crescenti, su base latitudinale. Tutti e tre sordi ai moniti dell’Europa sull’accorciare la distanza tra Settentrione e Meridione per accompagnare la ripartenza del Belpaese o per mettere a punto, a sentire i porno-ottimisti, un nuovo miracolo economico.

Per i tre tenori del “Prima il Nord!”, il disastro è evitabile solo inasprendo il modello discriminatorio in vigore (gli investimenti pubblici, da sempre, non sono geograficamente equi). Addirittura, reintroducendo le gabbie salariali. Un arnese concepito nel periodo post-bellico grazie al quale, per circa vent’anni, le retribuzioni nelle diverse aree d’Italia vennero calibrate in relazione al costo della vita stimato. Con differenze di salario, tra le aree più povere e quelle più ricche, vicine al 30%. Tale sistema di calcolo, inutile dirlo, fu abolito nel 1972 in quanto giudicato, guarda un po’, apertamente razzista.

Ora, se ci si attiene ai semplici dettami costituzionali, secondo cui “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, diventa comodo notare come “l’intrinsecamente sbagliato”, quando si parla d’Italia, tenda a collocarsi presso traiettorie dell’analisi politica piuttosto lontane da quelle tracciate dal sindaco di Milano. Perché, a voler essere onesti d’intelletto, non basta limitarsi a osservare, come fa Sala, che il costo della vita tra Nord e Sud presenta una sostanziale discrepanza. Bisogna anche illustrarne le cause. E viene da sé che il minor costo della vita sia direttamente proporzionale a una minore qualità della vita. Concetto che si traduce con un palese dislivello sul versante delle opportunità lavorative, con una sistematica assegnazione di risorse pubbliche ridotte, con una situazione infrastrutturale da terzo mondo, con una lampante disparità nel funzionamento e nella copertura dei servizi essenziali. Elementi di criticità endemica che, probabilmente, restituiscono un quadro più corretto, e meno nordcentrico, dell’espressione “intrisecamente sbagliato”. 

Così come, con qualche approfondimento in più, al campo dell’intrinsecamente sbagliato si potrebbero ricondurre, tanto per cambiare, anche le attuali linee guida del decreto Grandi Opere, strombazzatissimo fiore all’occhiello della recente azione governativa. Le quali prevedono, non si sa ancora con quali soldi, una sola opera cantierata per il Mezzogiorno (asse ferroviario ad alta velocità Napoli-Bari), al netto di almeno tredici opere cantierabili, e sette opere cantierate per il Centro-Nord, al netto di undici opere cantierabili. Risultato: maggiori finanziamenti dove meno serve e le briciole dove l’Alta Velocità, specialmente in alcune zone iperterroniche a sud di Salerno, viene percepita come una specie di creatura mitologica.

Insomma, un implacabile déjà vu. Coordinato dalla ministra dei trasporti e delle infrastrutture De Micheli, in quota PD. Non così distante, sul fronte dei propositi, dal triangolo industrioso (Bonaccini-Sala-Ceccardi). E si sta parlando dell’esecutivo, per composizione, più meridionale della storia repubblicana. Tanto che l’ineffabile Feltri ebbe a definirlo “lo zoo dei terroni”.

Non può stupire, allora, che l’appeal dei dem a sud di Roma si stia estinguendo. De Luca ed Emiliano sono eccezioni. Sono battitori liberi. Sono dei fuori schema. Giocano in levare. Costruitisi in autonomia sui rispettivi territori, mal tollerano le indicazioni dei vertici del partito e da esse, spesso, si discostano. La loro idea di “intrinsecamente sbagliato” potrebbe divergere di molto da quella approntata dall’ala nordica piddina. Potrebbe. Per il momento i due governatori tacciono sul Salabonaccinismo e su quel vento del Nord che vorrebbe tramutare il PD, ironia del fato, in una costola della Lega.

Chissà che la permanente assenza di un’adeguata rappresentanza politica, l’indebolimento cronico di un qualsivoglia spirito di coesione nazionale e le trentennali minacce di secessione dei ricchi del Nord, alla fine, non spingano i poveri del Sud a secedere per primi. In fondo, questi ultimi potrebbero dirsi che le sistematiche discriminazioni subite siano intrinsecamente sbagliate. Che è meglio essere solo poveri che poveri e discriminati.