Le ombre e i veleni del petrolio lucano

La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia. Addirittura, è il più grande giacimento onshore dell’Europa Occidentale. Attualmente, il petrolio lucano rappresenta oltre il 70% del petrolio estratto entro i nostri confini, e copre circa il 7% del consumo nazionale. Cifre che farebbero pensare, senza esagerazioni, a una specie di Texas in miniatura. Cifre di cui l’opinione pubblica, inspiegabilmente, sa pochissimo.

Viggiano, piccolo paese del potentino situato lungo il crinale a ovest della Val D’Agri, con i suoi 3366 abitanti è, di fatto, la capitale italiana del petrolio. Non solo. In virtù delle royalities versate in questi decenni dall’ENI, è persino il comune petrolifero più ricco del Vecchio Continente: per intenderci, dal 1998 al 2013, attenendoci alle dichiarazioni ufficiali dell’Ente Nazionale Idrocarburi, nelle casse comunali sarebbero stati versati 11 milioni di euro all’anno.

Il sottosuolo viggianese è percorso da un reticolato di tubature in cui ogni giorno transitano cospicui quantitativi di oro nero. Che corrispondono, si stima, a 81.868 barili. Il greggio viene stoccato e stabilizzato in terra lucana, nei pressi dei siti estrattivi, per poi essere spedito nelle raffinerie di Taranto per mezzo di un oleodotto sotterraneo lungo 136 km.

Ma la petrolizzazione della Basilicata non si limita alla Val D’Agri. Più della metà dell’intero territorio regionale è nelle mani delle compagnie petrolifere. Il che, se da un parte rende, in teoria, la Basilicata il principale hub energetico della nostra penisola (considerando anche le numerose attività estrattive legate al gas), dall’altra istituisce una totale dipendenza economica della regione dal modello estrattivista, impedendo una valorizzazione diversificata delle risorse territoriali. Non un’ottima notizia in una fase storica in cui persino l’ENI, in altri luoghi (of course), per tutelare la salute del pianeta, si dedica a investimenti finalizzati alla transizione energetica.

Senza considerare che le ricadute in termini di occupazione e di ricchezza pro capite legate allo sfruttamento intensivo del sottosuolo lucano sono pressoché nulle. L’ultimo rapporto Svimez sottolinea come la pluridecennale estrazione del petrolio non abbia comportato, per la Basilicata, l’attivazione di un processo di crescita e sviluppo. La disoccupazione è tra le più alte d’Italia, la qualità infrastrutturale è tra le più basse e lo spopolamento, proprio come nelle altre aree interne del Mezzogiorno non interessate dalla presenza di giacimenti petroliferi, pare inarrestabile.

Che le royalities versate alla Regione e ai comuni dalle varie compagnie che operano nei siti estrattivi siano miserrime, da terzo mondo, rispetto a quanto si vede altrove, non spiega a sufficienza la leggerezza del prodotto interno lordo lucano, il sedicesimo in Italia (ad esempio, il Texas, quello vero, è il dodicesimo stato per PIL a livello mondiale). A questo bisogna aggiungere la totale mancanza di politiche aziendali volte al coinvolgimento della popolazione autoctona. Infatti, su quasi 3000 dipendenti direttamente collegati al business del petrolio, i dipendenti lucani sono poco più di 200. Allargando l’analisi all’indotto, meno della metà degli occupati proviene dalla Basilicata. E, in base a un recente dossier della Cgil, gli occupati dell’indotto ricoprirebbero essenzialmente mansioni poco qualificate, mal retribuite e con contrattini a tempo determinato.

Certo, le amministrazioni locali, come spesso capita nel Mezzogiorno, hanno saputo offrire il proprio contributo a questo disastro. Utilizzando gli incassi, comunque considerevoli (sebbene, repetita iuvant, relativamente bassi), come un jolly per coprire la spesa corrente, per acquistare fioriere, per abbellire, per organizzare sagre. L’economia incentrata sul petrolio si è rivelata un ottimo alibi per non fare economia. Per non pianificare investimenti con ricadute di lungo periodo (infrastrutture, imprese, educazione, ambiente). L’utilità sociale delle istituzioni, quindi l’utilità tout court delle medesime, ancora una volta, a sud di Roma, ha latitato, in ottemperanza al solito schemino del ritardo economico: le aree costiere devono essere consacrate alle folle turistiche, quelle interne al disagio e alla desertificazione, anche quando galleggiano su una risorsa naturale che in luoghi del globo terracqueo più fortunati implica ricchezza.

Come se non bastasse, lo sfruttamento intensivo del sottosuolo lucano, in un territorio fragilissimo sotto il profilo idrogeologico, oltre a non avere avuto alcun riflesso economico degno di nota su una popolazione sempre più anziana a causa di un’emigrazione giovanile galoppante, ha determinato anche un impatto ambientale e paesaggistico di proporzioni enormi. Con danni incalcolabili per le falde acquifere che hanno compromesso tanto l’ordinario approvvigionamento idrico quanto i terreni agricoli. Generando sospetti sui prodotti locali e sulla potabilità dell’acqua.

Nella Val D’Agri capita che la terra sudi liquami inquinanti e alcune ricerche scientifiche hanno appurato un aumento delle malattie e del tasso di mortalità. Le aree pozzo sono oggetto di esami limitati e di un’applicazione scarsamente accertata delle misure preventive e mitigative connesse agli effetti collaterali delle attività di estrazione. Manca la trasparenza da parte delle amministrazioni locali. E manca la trasparenza da parte delle compagnie petrolifere. Le quali si occupano, praticamente in totale autonomia, del monitoraggio e della manutenzione degli impianti (controllati e controllori coincidono!). Visitabili, peraltro, solo con un preavviso di 24 ore e quindi mai esposti a possibili controlli a sorpresa.

Insomma, il paese dei balocchi per chiunque abbracci il modello di sfruttamento predatorio delle risorse energetiche tipico dell’approccio colonialista.