Riflessioni vaganti

Vogliamo giocare un po’ con la/le lingua/e? Joyce è una buona guida.

Rispetto agli italiani – in genere troppo seriosi, soprattutto riguardo a sé stessi (il loro amore del cazzeggio è apotropaico, è la buffoneria che si prende sul serio o piuttosto che finge di non prendersi sul serio!) –  lo scrittore irlandese possiede l’atout dell’inglese che – come il francese e il tedesco – usa il verbo giocare anche per significare ciò che noi diciamo suonare e recitare. Una scrittura teatrale, inoltre, in inglese, che sia tragedia o commedia, si chiama play. E dite niente!

Allora – fin dal titolo, l’ultimo romanzo già non significa una cosa sola. Finnegans Wake, infatti, non Finnegan’s Wake, nel qual caso avrebbe significato inequivocabilmente “la veglia di (o, meglio, per) Finnegan” e tale significato resta anche nelle scrittura attuale. Ma così, senza l’apostrofo del genitivo sassone, il nome è un plurale, e Wake da sostativo si fa verbo, terza persona plurale del presente indicativo, dunque significa “I Finnegan si svegliano”. Non basta.

“Riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay, bring us by a commodius vicus of recirculation back to Hoeth Castle and Environs”.

Un cerchio intorno a un quadrato – recirculation –, ci si aspetterebbe la “quadratura del cerchio”, ma qui si preferisce la “ricircolazione del quadrato”. “Riverrun”, corrente d’un fiume, il tempo, la storia, la vita. Eraclìto, Vico, ma anche Bruno. Troppa cultura sottintesa? Ma chi ha detto che la grande poesia debba essere democratica, e subito comprensibile a tutti? Ecco qua l’attacco di un capolavoro che sbugiarda questa stupida pretesa. 

E i giochi sono fatti. Ma per giocarli bisogna conoscere le regole. Anche il più semplice gioco ha regole, che so, la briscola. O la dama. E allora perché solo nell’arte si dovrebbe essere pronti a entrarvi e contattarla senza conoscerne le regole?

Un endecasillabo è composto di undici sillabe, di dieci se l’ultima parola è tronca, di dodici se sdrucciola, ma gli accenti non posso collocarli dove mi pare, ci sono regole che stabiliscono su quale sillaba debbano cadere.

Fate adesso anche voi i vostri giochi.

Niente al mondo come l’Italia!

Comincio a non sopportare più questo continuo mettere le mani avanti, questo sentirsi pestare i calli e dire sempre “e noi e noi e noi” che affligge come una malattia gli italiani appena si loda una bellezza non italiana. L’altro giorno, dopo avere visto La casa sul mare (pessima traduzione di La villa), bellissimo film francese girato nei dintorni di Marsiglia, parlando con un amico mi sono lasciato sfuggire: visto che bei posti sulla costa vicino a Marsiglia? Ti ci devo portare. Una signora che non conoscevamo, accanto a noi, non interpellata, si è intromessa e ha esclamato: in Italia ce ne sono di più belli! Ma che c’entra? Chi ha fatto confronti? La bellezza di un posto francese diminuisce la bellezza dei posti italiani? Apprezzare qualcosa di non italiano deve sempre costringerci anche a precisare che da noi è meglio? La bellezza non è un’esclusiva italiana. Per fortuna è sparsa in tutto il mondo. Mi è venuto di pensare al XIII Canto del Purgatorio, il canto di Sapia, la cui colpa appunto è credersi diminuita dall’apprezzamento di altri che non siano lei. In Italia è colpa diffusissima, invidia, senso di superiorità che nasconde un’identità fragile, un reale senso d’inferiorità. Lo registra anche Leopardi nella sua Descrizione del costume attuale degli italiani. C’è cascato, in questo imbarazzante vizio di narcisismo nazionalistico, perfino Roberto Benigni, quando in una lettura della Commedia ha esclamato: questa è grande poesia, mica Shakespeare, mica Goethe! O che? Dante diventa più grande se dico che Shakespeare e Goethe non sono grandi poeti? Da Benigni non me l’aspettavo, si è rivelato meschino, e fondamentalmente incolto, come i più degli italiani. Goethe adorava sia Dante sia Shakespeare. Se ne faccia una ragione, e non sentiva ferita la poesia tedesca dalla grandezza della poesia di Dante e di Shakespeare, conosceva bene l’italiano e apprezzò subito Manzoni, tradusse in tedesco Il cinque maggio. Chi sa che m’avrebbe detto quella signora, se le avessi confessato che il mio poeta di riferimento è, oltre agli amati greci, Baudelaire!