Perché dobbiamo ancora essere Charlie Hebdo

Sono passati cinque lunghi anni da quando la follia terrorista ha spezzato le matite di Charlie Hebdo a colpi di kalashnikov. Nell’ immediato fummo tutti Charlie, anche se quel giornale non lo conoscevamo o non l’avremmo mai acquistato. Perché Charlie Hebdo è sempre stata una pubblicazione controversa messa su da un gruppo di monelli, adulti, geniali, cinici. Stupidi e cattivi, si definirono i suoi redattori nel 1960 quando la rivista si chiamava ancora Hara-Kiri.

Fu facile essere Charlie di fronte a quelle morti a sangue freddo, di fronte al sangue sui marciapiedi di Parigi. Fu semplice perché si trattava di riaprire ancora una volta il fronte del “noi” e del “loro”: era facile, bastava appuntarsi al petto #jesuischarlie. Ma quando la minaccia jihadista ha mollato un po’ la presa in Europa, essere ancora Charlie ha cominciato a divenire di nuovo scomodo e imbarazzante. Da lì, un’ondata di dibattiti sull’ applicare o meno le leggi sulla blasfemia, una valanga di elucubrazioni sulla pericolosità della satira e sulla moralità di un giornale che non risparmia nemmeno Dio e i suoi followers. In Italia, poi, abbandonato il cordoglio post mortem e le filippiche sulla brutalità islamista, gli stessi che ne avevano difeso la punta di matita gli hanno giurato vendetta quando è toccato allo Stivale essere oggetto di satira.

Satira, appunto.

Perché per capire il valore di Charlie Hebdo, oggi più che mai, occorre capire cosa è la satira ma soprattutto cosa non è. Satira viene da satiro, la figura della mitologia greco-romana, mezzo giovincello e mezzo animale, sensuale, lascivo, schernitore, spesso aggressivo e crudo. Addirittura, Nietzsche, nella Nascita della tragedia dallo spirito della musica, sosteneva che «l’uomo vero, il Satiro barbuto», denuncia la civiltà come illusione. “Al fondo dell’arte, e della civiltà che grazie ad essa si inaugura, resta dunque la consapevolezza angosciosa di uno stato di natura dominato dal dolore. A questo stato di natura l’uomo greco dà le forme di un essere primitivo, semi-animalesco – il Satiro –, che corrisponde ad uno stadio pre-umano dell’umanità stessa, anteriore ad ogni forma di civiltà, e dinanzi al quale ogni civiltà si svela come menzogna, in quanto si edifica sull’occultamento del dolore”. Ergo, il satiro cala giù le maschere (e le braghe), addita difetti, ossessioni, segreti e debolezze e denuncia che il re è nudo. Proprio come Charlie Hebdo, che si tratti di Islam o di mafia.

Ma c’è un altro punto che stenta a chiarirsi: la satira non è giornalismo. Pur venendo veicolata sui medesimi canali dell’informazione, la satira non racconta notizie, non fa analisi, non compie indagini e non informa il cittadino. Informare, dire la verità, è prerogativa del giornalismo, almeno quello dei giornalisti-giornalisti, come diceva Giancarlo Siani. Per questa ragione non andrebbe giudicata con lo stesso metro del giornalismo: la satira non mente, non è scorretta, non fa disinformazione, non perseguita e non bullizza. È un giullare di corte e come tale va trattata. E ancora, la satira non è comicità: questo è l’altra grande mistificazione dei giorni nostri. La satira non è fatta per far ridere. Non è un monologo di un comico sul viale del tramonto che prende in giro il Governo in una trasmissione della seconda serata. La satira può offendere, certo, ma se ci facciamo offendere dal suo graffio vuol dire che non ne abbiamo capito il senso oppure, ancora, che ha colpito esattamente nel segno i nostri vizietti pubblici e privati.

Ad essere Charlie si è rimasti davvero in pochi e lo testimonia il poco calore con cui in questi giorni viene accolta e trattata la notizia dell’apertura del processo per la strage del 2015. Nel frattempo, Charlie non ha smesso di essere tale e il suo ruggito è rimasto lo stesso: lo sa chi si è preso la briga di continuare a cercare e leggere le sue vignette. Quello che dobbiamo chiederci, anni dopo quella strage, è se eliminare Charlie sia giusto.

Cosa ci sarebbe in un mondo senza Charlie (e affini)? La dittatura del politicamente corretto, il bavaglio allo scherno, l’affermazione dell’inattaccabilità assoluta di persone e fatti ben precisi, la censura. Perché usare la gomma sui tratti di Charlie significa che non si può più ridere di tutto e di tutti, che la legge degli uomini può, un giorno, decidere cosa si può dire e cosa no, cosa si può stampare e cosa no, cosa prendere in giro e cosa no. Fermare la satira vuol dire asservimento al potere, secolare o religioso che sia. Vuol dire fermare il riso proprio come il vecchio Jorge ne Il nome della rosa. Charlie non offende, non bullizza, non perseguita: è al di là del bene e del male, come avrebbe detto qualcuno.

Dunque, in un momento in cui il sangue è stato ripulito dall’ asfalto, le matite temperate e i carnefici messi alla sbarra, Charlie Hebdo ha ancora più bisogno di sostegno. Anche e soprattutto da parte di quelli che non lo apprezzano e che non lo comprerebbero. Il loro sostegno è ancora più importante di quello dei suoi estimatori perché, se è vera quella storia del “disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, dobbiamo continuare a essere Charlie.