La professione di scienziato seduce ancora chi la esercita?

Diciamolo subito: fare il ricercatore oggi è un mestiere.

Concetto difficile da far comprendere persino ad alcuni addetti ai lavori che ne danno ben volentieri un’aura sofisticata e rarefatta, a volte persino misteriosa, per suggerire quasi un percorso di conoscenza metafisica, esoterica.

Le scoperte eclatanti in ambito scientifico, frutto dei fallimenti e successi di una linea di ricerca, assumono quindi la dignità di comunicazioni divine che poi vengono distribuite al grande pubblico quasi come ostie sacre.

Ma cosa deve affascinare l’alchimista contemporaneo? E ancora, la professione di scienziato oggi deve per forza sedurre chi la esercita? 

Paradossalmente l’anelito alla scoperta è così pragmaticamente legato ai risultati (riconoscimenti, pubblicazioni, finanziamenti) che la creatività e l’intuizione passano in secondo piano: tutto deve essere finalizzato a portare dei risultati e a corroborare questa o quella linea di ricerca in modo da supportare, in primis, la sopravvivenza di chi fa ricerca, cioè gli assegnisti di ricerca e altre figure nel percorso iniziale di scienziato.

Spesso le pubblicazioni, che sono finanziate da organi statali, istituzioni pubbliche o aziende, si concludono con: “further research is needed” (FRIN, acronimo per “ulteriori ricerche sono necessarie”). Questa frase è ormai bandita nelle riviste scientifiche più serie in quanto essa potrebbe risultare universalmente valida per qualsiasi cosa, ma tranne che per un articolo scientifico. 

Accezione troppo vaga, un cliché dunque, che tuttavia sottintende la volontà di approfondire gli aspetti affrontati, ma andrebbe intesa e giustificata anche come una supplica sincera per l’ottenimento di più fondi a consolidare una certa linea di ricerca a discapito delle altre possibili. Un doppio passo falso, dunque, nel percorso della verità scientifica.

In sostanza, lo scienziato vive oggi dibattuto tra la velleità della sua ricerca, una volontà imperfetta di scoprire le cose nel percorso da lui tracciato e la necessità di produrre in continuazione un compendio tangibile del suo fare scienza. Un conflitto interiore davvero singolare per un vero intellettuale, che forse preferirebbe il mero godimento cerebrale, rifuggendo ogni crepitio che mini l’equilibrio impalpabile di un ragionamento sospeso.

La pressione è evidentemente enorme per un’attività in fin dei conti umana che può vivere di momenti di verità, encomio, gloria e soddisfazione, ma essere pure l’emblema di vizi inattesi in ambito scientifico. Come, ad esempio, mentire sul metodo oppure falsificare i dati per giustificare delle ipotesi.

Tra i vizi capitali assolutamente da includere ci sono la superbia e l’invidia di alcuni ricercatori. Talvolta l’ira, ma più spesso l’accidia, cioè quel vizio di autoconvinzione che porta a una inerzia nel correggere gli errori, facendo perseverare in una visione cristallizzata che non ammette una diversa interpretazione dei dati.

Nell’alfabeto emotivo è forse l’accidia il peccato più insidioso, perché spesso commesso in buona fede, e talvolta più pericoloso se commesso in scienza e coscienza.

La figura dello scienziato serafico incline all’elucubrazione è oggi inesistente.

Non dovrebbe dunque stupire che anche nella comunità scientifica esiste un diffuso problema di abuso di farmaci psicostimolanti per dopare le prestazioni intellettuali. Medicine ampiamente prescritte a bambini e adolescenti utilizzate per il trattamento della sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) vengono invece utilizzate per scopi non medici, per migliorare la concentrazione, stimolare il cervello e produrre di più.

Le prestazioni che si richiedono a un ricercatore sono davvero alte se basta pensare quanto sia rilevante per esprimere un giudizio di qualità non solo il numero di articoli prodotti, ma anche su quale rivista vengono pubblicati.

Si parla infatti sempre più esasperatamente di impact factor di una rivista, che tiene conto di quante citazioni ricevono appunto le pubblicazioni su una particolare rivista scientifica.

Va da sé che essere un autore frequente su Nature o Science ha un valore indiscusso per l’elevato impact factor e il prestigio.

La figura dello scienziato dopato non può che essere lontanissima quindi dall’intellettuale sedotto da Socrate, dal suo sapere di non sapere, dalla sua imperturbabilità. Ancora più alieno dal mecenatismo disinteressato è l’ambiente in cui sopravvive il ricercatore che deve invece inquadrare le sue idee in rigidi schemi che lasciano poco spazio alla creatività ma prevedono corpose giustificazioni finanziarie.

Difficile quindi pensare per esempio alla Chimica come a un’arte, quella di separare, pesare e distinguere, ma piuttosto come a un mestiere che oggi deve portare finanziamenti nelle aziende come pure nel mondo accademico.

Può ancora affascinare questo modo di fare scienza? Può ancora sedurre l’esorbitante numero di articoli pubblicati e poi ritirati in quanto i risultati non sono riproducibili o frutto di manipolazione? Il problema ha assunto proporzioni inverosimili non solo per la credibilità della comunità scientifica ma anche perché, specie in ambito biomedico, presentare dati “ritoccati” significa mettere a rischio la vita dei pazienti.

Il grande poeta persiano Rumi diceva che un grappolo d’uva rappresenta la molteplicità di noi persone, delle nostre individualità, ma si riesce a dissolverla quando se ne ricava il vino per raggiungere, con questa metafora, umiltà e unità.

E un po’ fa impressione che quello scienziato chino a scrivere e a sperimentare, eroe rinascimentale del sacrificio, abbia scelto la strada della fama per il solo gusto di emergere come singolo e non abbia lasciato una vera comunità di degni eredi; ed è difficile oggi fare scienza perché in fondo è diventato un mestiere come un altro per cui l’alchimista deve trovare in autonomia sempre più risorse. Una situazione che il vero mecenatismo non avrebbe mai permesso.