A Natale ubriachi di lumen, poi passare all’arte

Che il Natale sia – tra le tante possibili sfaccettature, dallo spirituale al culinario – anche un trionfo di luci colorate, è un fatto ormai ovvio. Lucine in serie, dai mille colori, solo rosse o più sobriamente bianche, nelle due varianti luce fredda/luce calda. Da avvolgere a spirale intorno all’albero addobbato, da sistemare su piante, ringhiere, pergolati. Da far spuntare con esattezza matematica fra le pareti di cartone pressato delle casette del presepe o – come fari elettrici sul chiaro di luna futurista – nel cielo stellato e stampato che si apre sopra quasi ogni Betlemme domestica. Un campionario di esempi non sempre esaltanti, aggiornatissimo in queste settimane, è raccolto con molta ironia sulla pagina instagram Lucidimerda.

Da un po’ di tempo questo trionfo di luci, lampadine o led a formare composizioni e motivi di sapore natalizio, nato per addobbare vetrine di negozi e specifiche vie del centro, ha assunto una vera dimensione ambientale. Quartieri interi, piazze e strade, dalle luminarie di ispirazione canora in via d’Azeglio a Bologna ai barocchismi di Luci d’Artista a Salerno, fino al più sperduto paesino di montagna, ogni luogo sembra non esistere sulle mappe geografiche della Penisola se non si illumina completamente a festa nei giorni che precedono il Natale.

Certo, il 2020 presenta il conto anche da questo punto di vista: inutile aspettarsi il medesimo sfarzo luministico se le strade si svuotano e i negozi seguono rigidi orari prestabiliti dal Dpcm.

Ma la tecnica avanza, e illuminare a led anche intere facciate di palazzi richiede ormai uno sforzo tecnologico talmente piccolo da far diventare la Parigi della Belle Époque, quella che fu la ville lumière, poco meno del balcone di un vicino di casa particolarmente ispirato.

Non sono immuni a questa estasi da lumen anche le sedi istituzionali. Molti si saranno accorti, seguendo le mille dirette dei telegiornali, che anche la facciata del cinquecentesco Palazzo Chigi a Roma presenta da un po’ di tempo una vistosissima veste tricolore, per la verità inaugurata già lo scorso 17 marzo, in occasione del 159° anniversario dell’Unità d’Italia. A proposito di luci, dal balcone del medesimo palazzo, ormai due anni fa, Luigi di Maio e la sua squadra si affacciarono per annunciare al popolo di aver «abolito la povertà», esaltati da una luce inquietante e hitchcockiana che non ha mancato di generare ilarità in rete.

Insomma, dopo questa esplosione di luci colorate, natalizie o patriottiche, urlanti, commerciali o fiabesche, ci sentiamo, da umili storici dell’arte, di suggerire solo alcuni esempi in cui anche l’arte del XX secolo ha provato a utilizzare la novità assoluta della luce elettrica fra i materiali della ricerca estetica. E nel farlo, ha evitato **abilmente **ogni trionfo demagogico, ogni esaltazione spettacolare o retorica. Ci riferiamo, fra gli altri, agli “ambienti spaziali” di Lucio Fontana, nati addirittura alla fine degli anni ’40, in cui le lampade di Wood (la cosiddetta luce nera) spingono l’ambiente reale verso spazi di immaterialità sospesa (il più noto oggi è allestito in una sala del Museo del Novecento di Milano, proprio in affaccio sulla piazza del Duomo). Oppure gli allestimenti minimal di Dan Flavin, realizzati attraverso semplici tubi al neon, “sculture di luce” in cui rivivono sequenze, incastri o richiami al costruttivismo russo (come nei noti Monumenti a Vladimir Tatlin degli anni Sessanta). Infine James Turrell, altro nome imprescindibile dell’arte del secondo Novecento, capace com’è di costruire forme, ambienti e spazi immaginari e meditativi con tenui gradazioni di luce colorata, in cui lo sguardo dell’osservatore perde le coordinate e si proietta in ambienti fatti di geometrie eteree.

Dunque un modo diverso, meditativo anziché spettacolare, di maneggiare la luce elettrica, a cui ritornare dopo l’ubriacatura luminosa che ci circonda.