Petrolio: guerra mondiale all’ombra del coronavirus

La riduzione dei prezzi dei carburanti alla pompa è uno degli ultimi ricordi di quella che pare già essere un’era precedente. Era meno di una settimana fa, era solo prima del 10 marzo scorso, quando è scattata la quarantena nazionale.

Si è ascritto quell’andamento finalmente benevolo del costo della benzina agli effetti collaterali positivi del contagio da coronavirus.

La realtà è un po’ diversa e meno semplicistica.

Intanto a Vienna

Lo scorso sei marzo, mentre i più osservavano con ansia la dashboard del contagio, a Vienna si svolgeva una sessione della partita a scacchi geopolitica mondiale, che ha nel petrolio uno dei suoi campi strategici.

Nella capitale austriaca erano riunite le delegazioni dei paesi dell’OPEC plus, l’organizzazione nata a dicembre 2016, quando ai 14 paesi OPEC, capeggiati dall’Arabia Saudita, si aggregarono 11 paesi non OPEC produttori di petrolio, Russia in testa. All’ordine del giorno la riduzione della produzione giornaliera di petrolio per contrastare la caduta dei prezzi, scesi dai 65,2 dollari al barile (brent) del 12 dicembre scorso ai 45,27 dollari della mattina della trattativa nella capitale austriaca.

Più che una pacata seduta di grisaglie aduse ai toni della diplomazia economica internazionale e coerenti con l’eleganza muscolosa e soave dei lipizzani di stanza nelle scuderie del palazzo asburgico, si è trattato di uno scontro tra cavallerie lanciate armi in resta. All’ora di pranzo oilprice.com (testata tra le più qualificate del settore energetico) titolava “Oil Price Armageddon As OPEC+ Disintegrates” (Scontro finale per il prezzo del petrolio, conseguenza della disintegrazione dell’OPEC+).

I russi

Cos’era successo? La Russia aveva recisamente bocciato la proposta dell’Arabia Saudita di ridurre la produzione giornaliera finalizzata a bilanciare il calo della domanda e arrestare la caduta dei prezzi.

Obiettivo dei russi era ed è approfittare della situazione di mercato per sbarazzarsi dei concorrenti americani dello shale.

Lo shale oil e lo shale gas sono ricavati da rocce bituminose con la tecnologia USA del fracking (qui un interessante articolo sulla tecnologia e i suoi risvolti). Le compagnie americane sono i principali concorrenti russi in molti mercati. Non possono, però, reggere livelli bassi di prezzo perché la tecnologia produttiva è costosa. Si stima che sotto i 47 dollari al barile le compagnie dello shale vadano in perdita.

La strategia russa è ancor più chiara se si considera che dopo la rottura del 6 marzo a Vienna il prezzo al barile (brent) è calato ulteriormente del 30% in pochi giorni, scendendo a circa 34 dollari. L’ultima flessione di queste proporzioni risale al 1991, 29 anni fa.

Per non lasciar adito a dubbi circa la propria posizione, i russi hanno fatto sapere di essere pronti ad attingere alle risorse del fondo sovrano per far fronte alle minori entrate petrolifere. Il Ministro delle Finanze, Anton Siluanov, ha dichiarato di “poter reggere per 6-10 anni un prezzo al barile tra i 25 e i 30 dollari”.

L’intervento di Trump

Nella situazione determinatasi Trump è pronto a sostenere con aiuti di stato il settore dello shale che nell’ottobre scorso ha raggiunto livelli produttivi tali da rendere gli USA indipendenti dalle importazioni petrolifere e che oramai è considerato to big to fail (troppo grande per lasciarlo fallire).

I problemi del principe ereditario saudita

Sul versante saudita il principe ereditario Mohammed bin Salman, dopo aver indotto il padre ultra ottantenne a cambiare le secolari regole di successione, e così prendere il potere, è impegnato su due fronti interni.

Per un verso deve condurre una difficile battaglia, con annessa caccia alle streghe, per il consolidamento del trono e bloccare sul nascere ogni tentativo di sabotaggio da parte dei circa 10mila membri della dinastia. Al contempo deve finanziare le (presunte) politiche di riforma sociale promesse.

Salman, iroso e sfacciato – è lui ad essere ritenuto il mandante dello smembramento del giornalista Jamal Kashoggi all’interno ambasciata saudita a Istanbul – non può rinunciare, insomma, ai flussi ingenti di dollari neri. Non può presentarsi all’opinione pubblica e alla schiera immensa della dinastia come protagonista negativo del crollo degli introiti nazionali. Per questo i sauditi sono disposti a tutto. Negli ultimi giorni, secondo quanto riferisce la Reuters, stanno provando a vendere greggio in aree asiatiche e europee tradizionalmente rifornite dai russi. È un tentativo di bilanciare con maggiori vendite i minori incassi causati dal crollo del prezzo al barile, oltre che una sfida frontale ai concorrenti putiniani. Un guerra commerciale a tutto campo che al momento pare destinata solo ad inasprirsi.

La riduzione dei consumi innescata dal contagio del coronavirus, insomma, è stata solo il detonatore di un conflitto le cui determinanti sono, come sempre, commerciali e geopolitiche.

Tempi duri per Greta

C’è un ultima considerazione da fare, per andare ulteriormente oltre l’apparente.

La riduzione del prezzo del greggio è un fattore sfavorevole alle battaglie ecologiste. L’evidenza storica dimostra che gli investimenti in tecnologie per la produzione di energia pulita sono condizionati in misura decisiva dal costo del petrolio. Le grandi corporate mondiali, che condizionano pesantmente le scelte politiche attraverso processi di lobbying, non sposano cause ecologiste che non siano accompagnate da interessi economici. È inutile girarci intorno, finché le energie alternative o altri fattori connessi alle tecnologie produttive e ai consumi non si traducano in interessi convergenti a quelli lucrativi degli azionisti, qualsiasi svolta green è destinata a languire, al più lasciando spazio a qualche marginale azione di facciata. É lo stesso che per i consumatori, la cui sensibilità ecologica china non appena risulta confliggente col proprio portafoglio e la propria disponibilità a rivedere stili di vita comodamente petroliferi.

Il calo del prezzo del petrolio se farà la gioia degli automobilisti, non altrettanto sarà per gli ambientalisti.