Della violenza verbale sulle donne
Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. Perché le parole costruiscono la realtà e quando infangano, feriscono, fanno soffrire, pur non essendo tecnicamente reato creano un universo di dolore e di amarezza che è reale. Che non fa notizia come un volto livido, come uno stupro, come delle ossa rotte: parole che spesso passano sotto l’aura purificante della battuta e della bonarietà. E vi è di più l’aggravante che, di questa violenza, si macchiano spesso anche le donne su altre donne, abili a mostrare tutti i sensi tranne uno: il tatto.
Sei dimagrita tantissimo, stai benissimo! Sei bellissima! Non ingrassare più.
Un refrain datato quanto le montagne. Che ignora che “se sto benissimo” può appurarlo solo il mio medico. Che fossi bella, lo sapevo già prima, perché la bellezza non è legata alla taglia: continuiamo a blaterarlo, ma nei fatti ci credono in pochi. Le ragioni che portano all’aumento o alla riduzione del grasso sono e restano personali, non riguardano la collettività. “Lo dico per il tuo bene” è la frase che sempre vuole indorare la pillola di tanta mancanza di tatto da parte di chi è privo di qualsivoglia forma di empatia.
Quando lo fai un bambino? Adesso tocca a te! Datti da fare che non hai più vent’anni!
Potrei avere dei problemi fisici che me lo impediscono, dei gravi disturbi psichici, potrei essere senza compagno e soffrire per questo, potrei al contempo non volerne mai, non volere figli al momento, essere lesbica e non saper come fare, oppure ancora concentrata sulla carriera e non desiderare pargoli. Se una donna con un carattere forte e tenace può reggere questi insulti continui, le stesse parole dette ad una persona più fragile (stesso discorso dicasi per le battutine sul peso) possono pesare come macigni, e fare danni incontrollabili. L’utero di ogni donna riguarda sé stessa, non è di vostra giurisdizione. E quand’anche lo vedeste gonfio, prima di chiedere “Ma aspetti?”, riflettete se non si tratti prima di… stitichezza.
Perché sei nervosa? Mi sa che non scopi abbastanza!
Che si tratti di una battuta al bar con le amiche o di un insulto lanciato dal collega maschilista, quest’affermazione è e resta di una pochezza ultrasonica. La vita sessuale di una persona non vi riguarda a meno che questa non voglia rendervene partecipe. Nessuno sa quale corda potreste andare a toccare, soprattutto di una donna. Ci sono argomenti, come la sessualità, dedicati come un fiore che tenderete a insozzare con le vostre boccacce irrispettose. O siamo ancora in epoca vittoriana durante la quale si prescriveva il vibratore per curare “l’isteria”?
Non siamo gatti
Un tempo gli uomini rincorrevano le ragazze per la strada al suon di “signorina posso accompagnarla a casa?”. Ma quei gentiluomini sembrano essere in via di estinzione. Ed il cosiddetto cat calling non si riferisce certo a qualche gentile ed educato complimento da parte di qualche bontempone. Fischi, complimenti insistenti, allusioni sessuali volgari. Quel confine sottile tra il reato e il non reato che ha come unico risultato quello di sentirsi dei pezzi di carne che camminano. E sporche. Senza motivo.
Brava e bella!
Perché il complimento professionale ad una donna deve essere sempre accompagnato da una valutazione della sua esteriorità? Avete mai sentito qualcuno definire un manager, un ministro, un commercialista “bravo e bello”? No, ci verrebbe da ridere. Una donna, invece, può essere anche una scienziata nucleare, dovrà mostrare sempre di essere anche figa. “La bellezza è un valore aggiunto” dice qualcuno: no. Affatto. La bellezza non è un merito e, peggio ancora, non è un valore oggettivo. Si può essere eleganti, in ordine, preparate, cortesi: questi sono valori, sui cui si può lavorare, fra l’altro. La bellezza non deve riguardare i nostri datori di lavoro né i nostri colleghi. E dovrebbe cominciare a sparire anche dalle offerte di lavoro dove campeggia dietro un patinato “di bella presenza”.
Ma che hai, il ciclo?
Il commento fuori luogo bipartisan. Quello che entra in una sfera intima, delicata, quasi medica. Come se noi donne non potessimo gestire la vita di tutti i giorni nel bel mezzo di cinque giorni di sanguinamento uterino. Come se qualsiasi irritazione, gesto di stizza o di rabbia fosse legato agli ormoni impazziti. Il ciclo è una cosa personale, qualcosa di intimo e privato come ogni sfera della salute. È un confine che non si varca. E pensate anche, prima di parlare, ai danni che potete arrecare a chi ha gravi problemi di salute connessi al ciclo mestruale.
Ha fatto carriera. Chissà a chi l’ha data.
Un evergreen, anche questa un’offesa dall’origine bipartisan. Con un unico bersaglio: le donne che ce l’hanno fatta. Non importano i CV, gli studi, le esperienze. Una donna che fa carriera non viene né “perdonata” né tollerata. Deve insinuarsi sempre il sospetto che sia passata da qualche letto o sotto qualche scrivania per essersi fatta strada della vita. Un sospetto che non aleggerebbe mai attorno alla figura rispettabile di un uomo in carriera.
Questi sono solo alcuni esempi del modo becero di parlare alle e delle donne. A cui spesso noi stesse donne siamo abituate, chiedendoci se forse non siamo noi il problema: se siamo uscite di casa troppo scollate, se siamo state troppo pudiche, se abbiamo avuto poca autoironia o se non abbiamo tollerato abbastanza. Ma checché se ne dica, quando ci si rapporta ad una donna, sia in forma malevola che benevola, siamo abituati immediatamente a chiamarne in causa il corpo, le forme, l’esteriorità, la sua sessualità. Del linguaggio becero siamo intrisi, uomini e donne indistintamente. Fino a condurci all’emblematico “SE L’E’ CERCATA!”.
Quest’abitudine non ha solo la forma “innocente” della chiacchiera alla macchinetta del caffè, si insinua nelle menti, giunge perfino in un’aula universitaria in cui un docente si permette, come negli scorsi giorni, di affermare che le donne non possono essere buoni giudici perché “troppo emotive”.
Da lì discende tutto il resto e, lentamente, paradossalmente, anche la violenza, quella fisica.