La resilienza ha rotto!

Pasqualino setteresilienze

E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce

La resilienza, da resiliens, participio presente di resilire, cioè “rimbalzare“, è un termine mutuato nel linguaggio delle classi culturali medio-alte da quello fisico e ingegneristico. Ma a differenza di ciò che è avvenuto con i boom economici del dopoguerra, laddove nuove parole sono entrate in circolo ad identificare nuovi oggetti e funzionalità, in questo caso è il significato che viene travasato e trasformato, prima in ambito psicologico e sociologico, poi, come ogni evento, ogni novità, ogni pensiero e ogni segno, assimilato dal potere economico, in particolar modo quello dell’alta finanza. Draghi l’ha nominato ben dieci volte nel suo primo discorso in Parlamento.

Ed è così che, apparso nei primi anni del nuovo millennio su qualche libro che parla di anima e bellezza, è diventato, proprio come anima e bellezza, e come centinaia di termini del linguaggio tecnocratico, una nuova buzzword. Per evitare il carpiato, diamo subito una traduzione comprensibile: parola d’ordine, parola alla moda, quei termini che perdono il significato originario, quasi sempre di carattere tecnico e manageriale, comunemente usato quale “parolone”, per diventare tormentone. Vuoto volume semasiologico. A volte ne nascono già semioticamente senza senso, ma con sensazione.

Ecco che resilienza è la parola d’ordine del sistema economico, quindi del sistema stesso, prelevata e fatta ricadere come pioggia d’oro nel linguaggio globale, come tutto ciò che serve alla propria direzione, nel senso figurato spaziale, cioè di modello di sviluppo, e in quello amministrativo.

Addirittura, in tal ambito, rappresenta prima di tutto la resistenza al cambiamento del sistema di potere vigente. Per esso è quindi un vero e proprio capolavoro semantico.

Infatti è dalle pagine del Sole24Ore che viene così definita: “è questa la definizione basilare di resilienza: la capacità di un sistema di assorbire le perturbazioni, riorganizzarsi, e continuare a funzionare più o meno come prima. Ma ci sono dei limiti, o delle soglie, alle capacità di recupero del sistema, oltre le quali questo viene ad assumere una diversa modalità di funzionamento”. E il potere vuole aggiornarsi, non certo modificare le modalità di funzionamento del sistema in sua completa gestione.

Dall’antico romano passiamo al nuovo, al romanesco di molti secoli dopo, quello moderno, novecentesco: rimbalzare è usato già figuratamente per rappresentare un atteggiamento, in questo caso individuale: j’arimbarza si dice circa qualcuno che se ne fotte altamente.
C’è un problema, j’arimbarza: se ne fotte.
Ha una responsabilità e deve intervenire ma j’arimbarza: si volta e va via, se ne fotte.
Questo è il resiliente, il rimbalzante.
Il mondo dovrebbe cambiare, mai come ora, ma j’arimbarza, tira a campare fottendosene di tutto.
E se la pandemia è il segnale dell’urgenza di cambiamento, ecco che il rimbalzo è ancora maggiore e il termine resilienza, accostato alla paura di non campare, diventa la parola di moda imperante, perfetta.

Pasqualino Settebellezze, il resiliente

C’è un film italiano del 1975 che ricevette ben quattro candidature agli oscar. Gli americani, cui tanto piace il luogo comune, vi avevano visto l’italiano piccolo, caciarone e bonaccione contro il tedesco rigido, freddo e organizzato.

Forse poi si accorsero che non era quello il tema del film bensì la sovrappopolazione e che sotto accusa era proprio il simpatico Pasqualino Settebellezze, così che la pellicola non portò a casa nessun premio, nemmeno, assurdamente, quello di Miglior film in lingua straniera.

Pasqualino è brutto e incapace eppure la sua bramosia di farsi strada lo fa impettire e avere successo, un terribile contraltare ante litteram al mito americano di Forrest Gump.

L’onore è l’unico valore sociale cui aderisce ed è per vendicarsi di uno schiaffo in pubblico, più che della rispettabilità del suo nome per una sorella, più brutta di lui, ingaggiata in un bordello, che di notte, furtivo, passando per una piccola finestra, uccide, goffamente e con la mano instabile, Totonno Diciotto Carati. Ma dove riesce ad intrufolarsi lui, come un parassita liquido, il cadavere di chi l’ha umiliato non passa. Non c’è buco in cui un resiliente non riesca a passare.

Seguendo il flusso dei principi morali della società in cui è calato (oggi parleremmo di mainstream) si ritrova la pacca sulle spalle di chi governa la comunità. Per sbarazzarsi del corpo di Totonno si rivolge agli esperti della mala che governa Napoli. Le immagini degli scheletri del cimitero delle Fontanelle, moltiplicati dalla camorra, marcano il macabro esattamente come i caduti in guerra in quelle di repertorio ad introduzione del film o come i cadaveri ammassati in quelle dei lager nazisti.

Con la tipica qualità del piccolo resiliente, la furbizia, l’arte di arrangiarsi, e con la compiacenza del regime da lui ovviamente ammirato, riesce ad ottenere la totale infermità mentale. Rivolgendosi ad un socialista, in carcere per aver usato il pensiero, con condanna doppia rispetto allo squartatore:

“Nè, ma chi v’o fa fa’? Je me ne fotto, je m’a piglio co’ filosofia. Je me ne vaco al manicomio criminale, me faccio ‘na decina d’anni. E che so’!
Là è questione di sapersi organizzare, mi lavoro qualche dottore, me combino qualche infermiere. Eh, noi napulitani ce sapimme arrangia’. E si me va bene me faccio assegna’ a fa’ i servizi al reparto donne.
E chi sta mej’e me! Je sto ‘mbraccia a dio!”

Ed è così che, per soddisfare il bisogno eiaculatorio e il diritto di maschio, violenta una donna legata ad un letto di contenzione, mentre quelle di casa pagano con la prostituzione l’avvocato consigliato dalla camorra.
Perché un resiliente campa sempre sul culo degli altri
Ancora la furbizia e l’interesse del governo belligerante gli consentono di commutare la pena facendosi volontario sul fronte russo.

Ovviamente diserta. Entra in qualche casa, ruba e finisce in un campo di concentramento tedesco. Qui incontra Pedro, un anarchico spagnolo che ha provato una fallimentare strada di bombarolo, spinto dal bisogno di libertà, da una lucida visione della società contemporanea, del potere e dai residui di un’utopica e ultima speranza nell’uomo.

“Voglio campa’ e voglio avere figli. E voglio vedere i figli dei miei figli, e anche i figli dei figli dei miei figli. Sissignore, i figli dei figli dei miei figli.”

“Che mierda dici amico! stai dicendo delle cacate, amico. Purtroppo più figli fai, più acceleri la fine. Nel millequattrocento gli abitanti della Terra erano 500 milioni, nel milleottocentocinquanta erano diventati il doppio: mille milioni. E quindi noi seguitiamo ad indignarci per venti-trenta milioni di morti, ma fra duecento-trecento anni saremo 10 mila, 20 mila milioni. Allora, ogni angolo della Terra sarà peggio di qua dentro. Gli uomini si scanneranno a vicenda e per un pezzo di pale, per una mela. Si ammazzeranno intere famiglie. E il mondo finirà.

Peccato, perché io ci credo nell’uomo, ma deve fare presto. Deve fare presto a nascere l’uomo nuovo, l’essere civile, non quella bestia purtroppo intelligente che ha rotto l’armonia del mondo, distrutto il sacro equilibrio antico della natura, per massacrare tutto.
L’uomo nuovo, l’uomo che sappia ritrovare l’armonia dentro di sé.

L’ordine? No, questi qua sono ordinatissimi. Questa è l’unica speranza: l’uomo nel disordine.”

Nazista e resiliente a duello

L’apice resiliente di Pasquale Frafuso è quando si fa egli stesso puttano nel lager, fingendosi devastato da una passione sessimentale per una comandante del campo. Una che un italiano medio definirebbe culona inchiavabile, una a cui confronto le grandangolari forme dell’Elena Fiore di Mimì Metallurgico, interpretate dalla stessa Amalia Finocchiaro che in Pasqualino Settebellezze rappresenta la sorella prima bordellara, diventano dolci e graziose lande di beltà e amore.

Si attacca come un rachitico chihuahua in calore alla nerboruta coscia di lei che gli tiene il gioco esclusivamente e freddamente per una sfida ideologica. È lo scontro tra due estremi comportamenti all’interno di una società di massa, sovrappopolata: tra chi intende dominarla, con ordine e dominio, in conservazione della razza e chi perpetuarla e moltiplicarla, in conservazione della specie.

È fuor di dubbio l’orrore della Wertmuller per i crimini del nazismo, secondo solo a quello della sovrappopolazione. Così, nell’accusa che la truce nazista muove a Pasqualino si ritrova sia la sprezzante ideologia hitleriana sia un freddo ed esplicito giudizio su quell’ometto, chiamato verme per l’ennesima volta. E, capace di dirigere anche i suoi istinti più profondi quale quello sessuale, sarà un verme vincitore, sui cadaveri dei fallimenti storici e della natura.

“Tu vuoi mangiare
tu fai schifo a me,
tua voglia di vivere fa schifo a me,
tuo amore fa schifo a me,
In Parigi un greco faceva l’amore con un’oca: faceva questo per mangiare, per vivere.
E tu, larva subumana mediterranea, riesci a trovare la forza per tua erezione di maschio.
Per questo rimarrete voi, vincerete voi, piccoli vermi vitali senza ideali né idee.
E noi, i nostri sogni di un’umanità eletta… troppo difficile…”

A questo punto, così come per sopravvivenza è stato guappo, ladro, stupratore e assassino, la comandante, per masochismo e per sincretismo, gli rende il premio della vita ma gli ordina:

“Gioca anche tu a fare il carnefice!”

Pasqualino diventa kapò e sottostà al ricatto di scegliere sei prigionieri da eliminare al posto di tutti gli uomini della sua baracca, lui compreso.
All’amico che gli chiede di non accettare la risposta è:

“Tanto ‘sti digraziati so’ condannati a mori’, accussì almeno ce salvammo nui, no?”

Pedro, che ha deposto armi e speranze, chiede di essere liberato e pacificato:

“vado volontario, perché me sono rotto el casso!”

Ma il “nostro” non può accettare l’offerta, è un suo conoscente, meglio sei sconosciuti a caso. Il resiliente è familista. Il resiliente non vuole sapere di chi e cosa non vede. Il resiliente non ha immaginazione né la vuole. Non ha pietà.

Ma Pedro non ha alcuna voglia di perpetuare l’esistenza e l’esistente, per cui durante la selezione si fa avanti lo stesso. Lancia un urlo liberatorio:

“Eeeeh, basta con questa paura! Io me sono rotto i coglioni!

Per poi lanciare sé stesso in una latrina, quale uomo del disordine e annichilendosi nella merda, ultima entità a tornare nel circolo naturale.

Pasqualino Settebellezze e Napoli Milionaria

Il finale del film è osservabile in parallelo a Napoli Milionaria. Lì Gennaro Iovine torna dalla guerra e cerca di raccontarla, far capire gli orrori fuori la porta, ma nessuno vuole ascoltarlo. Realizza che la guerra non è finita, perché l’umanità non cambia, anzi peggiora. ‘A nuttata nun passa, ed Eduardo stesso, nei giorni del post-terremoto irpino del 1980, continuerà a sottolineare che c’è sempre e ancora la nottata da passare.

Quando il suo personaggio torna, trovando la famiglia dedita ai peggiori traffici, all’estrema resilienza, cerca di curare, dare speranza, una medicina.
Invece Pasqualino Settebellezze una volta tornato a casa intende alzare ulteriormente il tiro, e quando rivede la sua fidanzata datasi alla vita le dice:

“Pure tu sei addiventata zoccola!”
“Sì”

E la reazione è in un’altra domanda:

“E i renari l’hai fatti?”
“Sì”
“Meglio accussì!

Tramuta i pensieri di Pedro, li converte, anzi li inverte. Perché il resiliente non capisce:

“Mò chiudi bottega e ce spusammo subito. Ce sta poco tiempo! Io voglio figli! Molti: 25, 30! Noi dobbiamo diventare tanti e forti, perché ci dobbiamo difendere. Senti quanti so’ là fuori! Tra poco ci scanneremo a vicenda, pe’ nu bicchiere d’acqua, pe’ nu piezz’e pane, e pe’ chest’avimme aessere assaje: pe’ ce difennere, hai capito?”
“Io t’aggio sempe voluto bene, io so’ pronta”
“Subito, nun ce sta tiempo.”

Come Gennaro Iovine, Pasqualino viene invitato a non rammentare quello che è successo, a tirare avanti, continuare a campare. Ogni cosa, anche la guerra, anche i lager, anche gli omicidi, può essere dimenticata e buttata alle spalle. Tutto può rimbalzare.

“Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, nun ce pensa’ cchiù ‘a ste miserie. Tu si’ vivo!”

E lui, mirando il suo viso allo specchio, distrutto, spento, indurito, in opposizione a quello vitale e fanfarone della prima scena del film, risponde:

Sì, so’ vivo.

E invece è un morto. Un morto che produrrà altra morte. La resilienza non è quella della ginestra osservata da Leopardi, viva, conscia della propria fragilità, vita che affronta il destino con la grazia del fiore che danza sulla tragedia. La resilienza è la morte.

Basta con la resilienza, basta con le parole del buon pastore al gregge. Il mondo necessita cambi radicali non resistenza dello status quo.

La resilienza ha rotto el casso!