Ghosteen: l’essenziale eleganza di Nick Cave and the Bad Seeds

Statico, immobile, prolisso, addirittura noioso e pesante: così appare, a un primo ascolto, il nuovo disco, pubblicato nello scorso autunno, di Nick Cave and the Bad Seeds. Un lavoro per certi versi inaspettato, si ha notizia della sua uscita solo una settimana prima sul sito The Red Hand Flies, in cui l’autore risponde alle domande dei suoi fan. Qui, un fan di nome Joe gli chiede “quando possiamo aspettarci un nuovo album?” e Cave risponde che il nuovo album uscirà tra una settimana, si intitolerà Ghosteen e sarà diviso in due parti: una prima in cui  le canzoni “sono i bambini” e una seconda in cui le canzoni “sono i genitori”. L’autore, nella risposta, chiarisce anche che la prima parte è strutturata in otto brani e la seconda in due brani lunghi collegati da un pezzo narrativo parlato (spoken word) e, infine, che Ghosteen è uno spirito migratore. In realtà, questo neologismo nasce dalle parole “ghost” e “teen” e, inevitabilmente, in esse appare Arthur, il figlio quindicenne di Cave scomparso nel luglio 2015, cadendo da una scogliera a Brighton. Il precedente lavoro, Skeleton Tree, del 2016, raccoglieva decorosamente il dolore e l’elaborazione di tale, terribile lutto.

Ghosteen è ancora la rappresentazione di quel dolore ma, questa volta, in una dimensione in cui si cela un percorso denso di implicazioni umane e spirituali, come spesso nell’opera di Cave. Una dimensione in cui l’arte e l’uomo si incontrano e si fondono, muovendo verso l’universale, migrando dal buio verso la luce, la pace. Ecco, allora, che quelle impressioni di staticità, lunghezza e pesantezza, richiamate nell’incipit, scompaiono a un ascolto più attento dell’album. Ghosteen non è un album Rock e, per questa ragione, non può essere ascoltato come tale, non ci sono bordate elettriche o ritmi forsennati, tutt’altro: la prima evidenza è proprio una pressoché totale assenza della parte ritmica, al punto da lasciar pensare che la partecipazione dei Bad Seeds sia piuttosto relativa nella composizione del disco, se si esclude il ruolo di Warren Ellis. La dinamicità, in Ghosteen, va individuata nell’accostamento e nel susseguirsi di immagini sonore, vere e proprie visioni alla William Blake, che rincorrono la voce di Cave e le sue evocative parole, sia quando si limita a declamare che quando canta in falsetto, cosa piuttosto inusuale per il suo timbro baritonale. E poi ci sono i cori, anch’essi evocativi e leggeri, che contribuiscono a fornire ulteriore ariosità ad alcune canzoni. Insomma, a voler per forza catalogare, si è di fronte ad un disco che viaggia in una direzione ambient/avantgarde, caratterizzato dall’utilizzo di strumenti come vibrafono, loops e sintetizzatori, ma anche di strumenti etnici e particolari, come i tamburi indiani chiamati tablas e l’ondes martenot, una tastiera analogica monofonica, collegata a diverse tipologie di diffusori in grado di fornire effetti e suoni differenti. Completano il quadro una piccola sezione orchestrale e, naturalmente, il piano di Cave.

Come accennato, in questo contesto strumentale, incisivo è il ruolo di Warren Ellis, sia nella parte elettronica che in quella orchestrale, oltre che in alcuni cori. Quello di Ellis, del resto, è un ruolo che è andato via via crescendo, a partire dal disco Push The Sky Away del 2013, probabilmente il primo, nella produzione recente di Nick Cave and the Bad Seeds, ad essere indirizzato verso un minimalismo sonoro non sempre apprezzato. Ghosteen sembra essere il punto di arrivo di questo percorso, difficile capire cosa avverrà in seguito.

Così, se ci si immerge nell’ascolto dell’album, perché è proprio quello che bisogna fare per carpirne la bellezza, si viene trasportati immediatamente nel racconto di una “canzone a spirale” (Spinning Song) “sul Re del Rock’n’Roll” che non vede l’ora di essere cantata. Si tratta del primo brano di quella prima parte in cui le canzoni “sono i bambini” e, fin dalla chiosa di Spinning Song, con tanto di riferimento ad Elvis, appare evidente l’obiettivo cui mira l’intero concept del disco: “a peace will come in time”. Arrivano, poi, i cavalli lucenti (Bright Horses) che portano amore, mentre un padre aspetta il figlio che sta tornando col prossimo treno: un brano di rara intensità e commovente bellezza, sull’onda delle note di pianoforte e voci in falsetto. Di struggente bellezza si può parlare anche a proposito del brano successivo (Waiting for You): “la mia anima è la tua ancora, che mai vorrei levare […] sto aspettando il tuo ritorno”.

Night Raid, che si muove sul suono del vibrafono, è densa di riferimenti religiosi, a partire dall’immagine iniziale classica della Madonna con bambino, per poi passare alla “stanza 33” e al corpo di Cristo: ricerca spirituale che, come in altri luoghi della produzione di Cave, non è mai risolutiva ma rimane ricerca. Spiritualità e sacrificio sono i riferimenti anche del delicato brano Sun Forest, con quella “spirale di bambini che sale verso il sole” e con “l’uomo chiamato Gesù che promise di lasciarci una parola che avrebbe illuminato la notte”. Nei brani a seguire, tra fiabeschi galeoni che solcano il cielo (Galleon Ship) e mostri che emergono dal mare (Leviathan), lo spirito migratore (Ghosteen Speaks) continua il suo viaggio verso la luce. Con Ghosteen, lungo 12 minuti, si apre la seconda parte dell’album, quella in cui le canzoni “sono i genitori”. Il brano è fiabesco fin dai suoni iniziali, preludio a un’esperienza mistica che, a sua volta, si trasforma in narrazione, il racconto dei tre orsi davanti alla TV: mamma orsa ha il telecomando, papà orso galleggia nell’aria, mentre l’orsetto è andato sulla luna in barca. Il riferimento alla Trinità appare scontato, ciò che cattura l’attenzione è invece quello spirito migrante che danza nelle mani lasciando scie luminose e fa capire che “non c’è nulla di male nell’amare qualcosa che non puoi tenere fra le mani”. Sogni o fiabe che siano, l’importante è il riproporsi, anche se la realtà li infrange. Fireflies è uno spoken word che passa abbastanza velocemente, ma non senza farci comprendere che “siamo lucciole intrappolate da un bimbo in un barattolo di vetro”.

Hollywood è il brano più lungo, oltre 14 minuti, ed è la chiave interpretativa dell’intero album. Il testo racconta la storia di Kisa che non vuole ammettere che suo figlio è morto e, sostenendo che è solo malato, chiede aiuto a Buddha il quale, a sua volta, per guarire il bambino, chiede a Kisa di portargli un pugno di senape i cui semi siano però stati raccolti presso le famiglie in cui non è morto nessuno. Kisa gira per tutte le case del villaggio e trova grande disponibilità, da parte delle famiglie, a darle i semi ma… in ogni casa è morto qualcuno, quindi, Kisa non riesce a raccogliere neppure un seme e non le rimane che accettare la morte del figlio. La morte, la privazione, il dolore non sono questioni private, ma universali, questo il succo della splendida Hollywood e raramente un disco è stato chiuso così bene. L’universalità del dolore entra nel quotidiano e, con Hollywood, l’inquieta ricerca di luce e di pace in un tempo, il nostro, apparentemente senza speranza, sembra farsi consapevolezza attraverso i suoni, le immagini, i testi (difficile non citare William Blake o Sylvia Plath, tra i riferimenti letterari), le visioni e la morbida armonia di un album che, al pari di alcuni lavori di Leonard Cohen o dell’ultimo Scott Walker, rimarrà negli annali sotto il tag “capolavoro”. Perché Ghosteen è un vero e proprio capolavoro di essenzialità ed incontenibile, meravigliosa eleganza.