Trent’anni fa un ribollire di dischi memorabili

Festeggiare un anniversario, soprattutto quando la cifra è particolarmente alta, equivale a intraprendere un viaggio nel tempo. Trent’anni, poi, possono considerarsi un vero e proprio salto all’indietro dritti nella preistoria.

Trent’anni fa era il 1991.

Trent’anni fa, nel 1991 non esistevano i social network, fulcro di ogni comunicazione odierna, ma neanche Internet, se è per questo. Noi, poveri post-adolescenti affamati letteralmente di ogni novità in campo discografico, dovevamo sudarci le informazioni sui nostri amati idoli rock spremendole dalle riviste di settore, di cui erano piene le edicole, e da qualche generica trasmissione televisiva.

Trent’anni fa, nel 1991 il compact-disc stava sostituendo il vinile, ma le musicassette resistevano tenacemente perché non era ancora semplice per un ragazzo creare una compilation in cd visto che pochi potevano permettersi un personal computer e pochissimi anche un masterizzatore.

Le classifiche di vendita erano dominate dai brani di Sanremo e del Festivalbar, ma fu proprio a partire da quel famigerato 1991 che MTV, emittente dedicata esclusivamente alla musica che riusciva con difficoltà a coprire tutto il territorio italiano (il mio televisore riusciva a sintonizzarla decentemente solo in determinati momenti della giornata, a seconda della direzione e dell’intensità del vento), aggiunse in programmazione i video “alternativi”, di musica cioè che si distingueva dal pop commerciale.

Fu proprio in quel mutevole 1991 che la musica ribollì di dischi rock magnifici, che il tempo ha trasformato poi, nella mia memoria e in quella dei miei coetanei, in pietre miliari.

Facendo un excursus velocissimo (e certamente incompleto) è possibile soltanto rimanere impressionati.

In ambito mainstream uscì l’ultimo grande disco degli U2 (la svolta elettronica di “Achtung Baby”), l’ultima uscita dei Queen degna del loro monicker regale (“Innuendo”), quello della consacrazione definitiva dei R.E.M. (“Out Of Time” contenente il tormentone “Losing My Religion”), ma soprattutto l’ultimo disco dei Talk Talk, quel “Laughing Stock” che proseguiva la ricerca sonora della band iniziata con gli album precedenti e che diventerà presto lavoro imprescindibile perché pioniere di tutto il post-rock a venire.

Negli States esplose il fenomeno grunge, grazie all’uscita della sacra triade Pearl Jam, Nirvana e Soundgarden, che definirono in maniera puntuale le coordinate in cui si muoveranno le centinaia di band epigone in tutti gli anni novanta. Invero il discone del 1991 meno conosciuto, ma assolutamente da recuperare per chi ama quelle sonorità, risulta essere quello eponimo del supergruppo Temple Of The Dog, che comprendeva in line-up molti elementi delle band precedenti.

My Bloody Valentine, Slint, Dinosaur Jr, Sebadoh, The Jesus Lizard, Fugazi, Swans, Slowdive dichiararono guerra all’affettazione scintillante del decennio precedente asciugando le composizioni all’essenziale, cioè allo scheletro spigoloso fatto di chitarre e amplificatori: il rumore (nel senso di noise) e l’hardcore (nel senso di post-punk) conducevano al cuore della faccenda senza giri di parole, con una sequenza di lavori a dir poco inattaccabili. 

I bassisti (e gli amanti del crossover in generale) poterono godere dei gioielli ispiratissimi sfornati da Primus e Red Hot Chili Peppers, mentre in ambito metal, laddove i Metallica ridimensionavano il loro assalto all’arma bianca con l’amato-odiato Black Album, si cominciarono ad aprire diverse prospettive tutte notevoli, come quella gotica (con i lavori di Type O Negative e Paradise Lost) e quella più estrema che vedrà la violenza di “Human” dei Death, le contorte trame jazzate di “Unquestionable presence” degli Atheist, e le rigorose intransigenze di “Arise” dei Sepultura come modelli effettivi da seguire.

Ciò che rimaneva dello street-glam della decade precedente, perlopiù spazzato via dalla sporcizia del grunge e dalla violenza del thrash, produsse il miglior disco degli Skid Row (il mai troppo lodato “Slave To The Grind”), l’opera monumentale (e alquanto tamarra) in due dischi doppi dei Guns N’Roses, nonché quel delicato connubio di tecnica e orecchiabilità che fu “Learn Into It” dei Mr. Big.

Sbocciarono anche i primi fiori di generi che domineranno di lì a pochi anni: il trip-hop (l’esordio dei Massive Attack, già considerevole), lo stoner (l’esordio potentissimo dei Kyuss), il doom (l’esordio vorticoso e sabbathiano dei Cathedral di Lee Dorrian).

Dalle lande britanniche esordirono i Blur, arrivò il pregevole “Bandwagonesque” dei Teenage Funclub, ma soprattutto quel gioiello che è “Screamadelica” dei Primal Scream, nel quale confluivano per la prima volta rave-music, house, dub a mescolarsi col rock.

Poi l’hip-hop, che segnerà almeno due album fondamentali: l’esordio omonimo dei Cypress Hill, che sposterà la bilancia del rap verso il piatto del funky e del latino, e il jazz-oriented “The Low End Theory” degli A Tribe Called Quest.

E in Italia? L’Italia non la ricordo. Quel 1991 è già pieno così.