Il ponte attraverso cui kosovari e serbi si guardano e si ignorano

Ci sono tre modi per entrare via terra nel Kosovo e nessuno è pienamente legale. Si può arrivare a Pristhina da sud-est, attraversando il valico con la Macedonia del Nord, o a Prizren da sud via Albania. Però l’unico modo per arrivare a Kosovska Mitrovica è attraversando il conteso e non riconosciuto confine nord con la Serbia.

Attraversare un confine è sempre un’esperienza inusuale per noi europei delle giovani generazion i(cresciuti a “pane ed Erasmus”), ma se doveste viaggiare nei Balcani occidentali vi capiterà spesso di provarla.

Un autobus sgangherato, uscito trent’anni fa dalle fabbriche di un paese che non esiste più, parte ogni notte da Sarajevo e arriva a Novi Pazar nel Sangiaccato. Il suo viaggio dovrebbe finire qui, nel sud della Serbia, ma dopo una breve pausa l’autista rimuove le targhe e riparte in direzione di Kosovska Mitrovica, una città divisa: a nord i serbi e a sud i kosovari. A dividerli il fiume Ibar e il ponte Austerlitz presidiato dai Carabinieri nell’ambito della missione Nato KFOR.

L’autobus si ferma in un punto di ingresso non meglio identificato nel nord del Kosovo. La tensione è palpabile. Tutti tirano fuori i propri documenti e li stringono fra le mani, pronti per essere controllati. Spero davvero non vedano il timbro della dogana albanese sul mio passaporto. L’autista sta fumando una sigaretta dopo l’altra, appoggiato al finestrino: non sembra essere nervoso. Un poliziotto serbo sale sull’autobus e il silenzio cala fra i pochi viaggiatori, per lo più donne con bambini o anziani. Dice qualche parola ad alta voce, dà uno sguardo veloce in giro e scende. Nessun controllo. Non capisco davvero come abbia fatto a non notare me e il mio passaporto italiano. L’autobus riparte come se nulla fosse, e tutti esalano un sospiro di sollievo.

L’autista entra nella parte serba della città e fa segno di scendere. La sensazione è quella di essere in una terra di nessuno, di nessuno se non dei Serbi. I graffiti sui palazzi inneggiano ad un passato doloroso, al 1389 (l’anno di inizio dell’epopea serba sotto la dominazione ottomana). Le svastiche naziste sono associate all’Unione Europea e agli USA. Una ferita incurabile, purulenta e meschina quella dei bombardamenti della Nato del 1999. Nei mercatini vendono immagini votive di Milosevic e Sesely, criminali di guerra condannati, vicino a quelle della madonna e del Cristo. Le auto circolano senza targhe per ribellarsi al governo kosovaro. Le persone parlano serbo, si salutano con tre baci sulle guance a modo serbo e pagano in dinari serbi. Da questa parte del fiume Ibar il Kosovo è Serbia, dicono.

Il ponte è bloccato da una barricata di terra e cemento, eretta nel silenzio di una notte del 2011 per impedire fisicamente l’estensione del governo di Pristhina nel nord del Paese. Attraversare il ponte sarebbe rischioso sia per un serbo che per un kosovaro. Da una parte all’altra le due popolazioni si guardano, si specchiano e decidono di ignorarsi. Dall’alto delle colline che circondano la città, la cattedrale ortodossa scambia sguardi con la più grande moschea del Kosovo costruita con i finanziamenti turchi, e il canto del muezzin si perde nello scampare asincrono dei pope. A vegliare sulla città, il monumento trilitico di cemento armato eretto in epoca socialista, a ricordare la fratellanza fra i minatori serbi e kosovari.

Oggi la barricata è stata abbattuta. Di notte e nel silenzio, così come fu eretta. Nessuno sa chi sia stato né tantomeno da dove siano arrivati i bulldozer, ma al suo posto c’è un giardino e il ponte è stato pedonalizzato. Il destino del Paese che ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia nel 2008, costituito al 92% da albanesi e al 5% da serbi, è irrimediabilmente legato al destino di Mitrovica e a quello della minoranza serba.

Il governo del Premier kosovaro Albin Kurti, leader del partito Vetevendosje, è caduto il 25 marzo scorso in seguito alla decisione di non proclamare lo stato di emergenza dopo i primi due casi di contagio da coronavirus. La dichiarazione dello stato di emergenza implica il trasferimento del potere esecutivo al presidente Hashim Thaci, detto il Serpente, eroe de l’UCK e indagato per crimini di guerra dal Tribunale dell’Aia. Il timore è che ciò possa essere la copertura per l’abolizione dei dazi sulle merci provenienti dalla Serbia e la firma dell’accordo di scambio negoziato segretamente da Thaci e Aleksandar Vucic (Premier della Serbia), come fortemente voluto dal presidente Trump.