Il comunismo spiegato a un amante dei vini naturali

Il comunismo è una teoria abbastanza lineare che ha trovato dimostrazione pratica più volte nel corso della storia. Ovvero: si individua un problema – una causa giusta, giustissima o addirittura sacrosanta – si applica una soluzione idiota e si ottiene il risultato opposto agli obiettivi prefissati. Si tratta del cosiddetto comunismo scientifico. Ad esempio, prendi un paese con molti poveri: per ridurre la povertà vengono nazionalizzati i mezzi di produzione, poi si stermina la classe dirigente e come risultato si ottiene il raddoppio dei poveri. Il comunismo scientifico funziona così: è come la legge di gravità, non registra eccezioni.

Ma non perdiamo il filo. Nel 1985, mentre noi tardo-adolescenti canticchiavamo allegramente We Are the World scritta da Michael Jackson e Lionel Richie, tracannando impunemente litrate di Lancers, a Mosca muore quel simpaticone di Konstantin Černenko, e viene nominato segretario del PCUS Michail Gorbačhëv. Uno che finalmente vuol far funzionare il comunismo. Infatti, Mikhail Sergeyevich qualche anno più tardi tenterà di risolvere l’annosa questione della scarsa efficacia dell’economia in Unione Sovietica adottando una serie di soluzioni radicali per venire a capo e come risultato otterrà il crollo definitivo dell’URSS: scientifico, senza eccezioni.

Ma andiamo con ordine, il buon Gorby, adottato subito dai comunisti occidentali (che già all’epoca volevano ripartire da qualcuno), prima di affrontare il problema dei problemi – ovvero come far fallire per sempre un sistema cronicamente fallimentare – decise di aggredire con l’abituale efficacia comunista il male storico più grave della Russia: l’alcolismo. I numeri erano impressionanti: nel 1984, l’URSS contava 1 milione di morti provocati dall’abuso di alcol.

Si interviene col pugno duro. Nel maggio del 1985, il proibizionismo si abbatte come una mannaia sui poveri russi: chiude la metà dei negozi di alcolici in tutta l’URSS e aumenta il prezzo di vodka, vino e birra del 30%. Sono vietate le vendite di alcol prima delle 14.00 e la somministrazione superalcolici nei ristoranti, vengono infine introdotte pene durissime per la produzione casalinga di vodka e birra. Conseguenze: un’impennata della produzione clandestina di alcol di bassa qualità (con intossicazioni e morti a catena), la scomparsa dello zucchero dagli scaffali e una drastica riduzione delle entrate (dalle tasse sull’alcol) per il bilancio statale (che avrebbe dovuto essere compensata da un aumento della produzione industriale del 10% in base al piano quinquennale).

Insomma, all’inizio la campagna non funziona tanto bene, occorrono correttivi. Si consultano gli esperti comunisti ed esce la soluzione (comunista): bisogna ridurre la produzione. Dove si trovano le vigne nell’Urss? Moldova, Armenia, Crimea e Georgia: bene! Bisogna espiantare. Tutto? Be’ proprio tutto no, ma intanto si comincia.

Viene espiantato quasi il 40% dei vigneti in tutta l’URSS: la Crimea viene devastata, tra il 1985 e il 1988 perde oltre il 60% dei vigneti e il famosissimo podere Massandra, che forniva vino già alla corte imperiale russa agli zar, viene salvato dalla demolizione solo grazie all’intervento di un quadro locale del PCUS, Valdimir Scherbitsky, che interviene personalmente supplicando Mikhail Gorbaciov. Persino la Georgia, patria dell’influente ministro degli esteri, Eduard Schevardnadze, deve pagare un duro prezzo perdendo il 40% dei vigneti (anche se i quadri locali del partito mettono in atto una discreta campagna di resistenza passiva).

Ma il problema non è solo quantitativo, vengono infatti espiantate e perdute per sempre varietà autoctone rare e uniche come Kefesiya ed Ekim Kara in Crimea, Feteasca e Rara Neagra in Moldova, Telti Kuruk in Ucraina. Vengono imprigionati i vecchi contadini che resistono agli espianti, vengono rase al suolo cantine e vigneti secolari per far posto a fantomatiche fabbriche di computer, che non arriveranno mai. Pavel Golodrig, direttore dell’Istituto di ricerca per la viticoltura e produzione di vino in Crimea, si suicida: eroe sconosciuto dei vitigni autoctoni.

In breve, un patrimonio unico di storia, cultura, biologia, di sapere contadino ed artigianato accumulato nei secoli viene devastato irreparabilmente in soli tre anni. La legge inoltre provoca nelle repubbliche dell’Unione Sovietica una ristrutturazione radicale della viticoltura, concentrandola principalmente sulla produzione di uva da tavola. La conversione impoverisce drammaticamente gli agricoltori che in seguito hanno impiegato anni per espiantare o reinnestare le viti di uva da tavola per ricominciare a far vini, i quali però avevano perduto per sempre le peculiarità che ne avrebbero potuto far la fortuna sui mercati internazionali. Il Comitato centrale ha poi messo fine ufficialmente la campagna proibizionista nell’ottobre del 1988, a causa della sua impopolarità (e dell’insostenibile contrazione delle entrate fiscali derivate dalla vendita di alcolici). I contraccolpi della fine del proibizionismo sono stati brutali e il picco di mortalità toccato in Russia ne primi anni 90, secondo alcuni esperti, pare riconducibile ad una sorta di “recupero” del consumo di alcolici dopo la repressione degli anni 85-89. Un risultato in perfetta linea con la teoria del comunismo scientifico: problema serio, soluzione stupida, risultato opposto.

Dal suddetto cataclisma si è salvata in parte la Georgia, forse solo poiché regione agricola più arretrata o più protetta a Mosca (Stalin era georgiano), e fortunatamente per i lettori di Sonar più curiosi nelle enoteche del paese è possibile trovare buoni vini georgiani: magari un Saperavi in Anfora di Soliko Tsaishvili della regione del Kakheti, Importato da Triple in A in Italia.
I lettori delle lande sannitiche per certo lo troveranno a Telese da Mostovino Enoteca, magari assieme ad una copia del Dottor Zivago (nascosta sotto il bancone ne sono quasi sicuro).