Sei dischi per il mondo di poi
Non sono sicuro che sia una buona idea suggerire delle colonne sonore per scenari apocalittici, ma non mi sono mai piaciute troppo le buone idee. In un momento in cui tutti provano a immaginare il dopo, il mondo di poi, in cui anche il nostro vicino di casa parla di post-pandemia come un pessimo personaggio di un pessimo romanzetto di fantascienza, diventa particolarmente interessante (ri)scoprire chi sta un passo avanti, chi un attimo prima rilascia un disco che è effettivamente “post”, cioè un’opera che segna, per gli addetti ai lavori ma non solo per loro, una crescita nella concezione e nella composizione, un ulteriore gradino nell’evoluzione della specie.
Si tratta di sei dischi che imboccano un pezzo di strada ancora non percorsa da nessuno, esploratori di generi musicali che sono già confine, ma che con il loro contributo avanzano di quel passo che permette di scavalcare la frontiera e ritrovarsi in una landa ancora non battuta.
Cercherò di evitare termini come “sperimentale” o “avanguardistico”, perché è il modo semplicistico con cui si bollano lavori come questi.
Arca, “Arca” (XL Recordings)
Il glitch è quel piccolo sottoinsieme della musica elettronica caratterizzato da un utilizzo creativo di pulsazioni, interferenze, beat non voluti, generati da apparecchiature digitali. Arca giunge col disco omonimo (il terzo) a modulare una sorta di forma canzone post-glitch, attenuando in un certo senso l’assalto sovversivo e destabilizzante dei primi dischi. L’artista venezuelana (in precedenza Alejandro Ghersi) guarda a Bjork (con cui collabora da tempo) e decide di impiegare per la prima volta la sua voce (e la lingua spagnola). “Piel” è la sua ninnananna, la canción de cuna para dormir dei nuovi anni venti, “Reverie” incalza come un crescendo in mutazione, “Desafìo” affonda nei sentimenti più cupi e dolorosi. Magnetico.
Gazelle Twin, “Pastoral” (Anti-Ghost Moon Ray)
Già si parlava di movimento post-industrial da un po’, un contenitore che veniva usato per comprendere molte realtà diverse e a volte lontane. Con “Pastoral” dei Gazelle Twin (aka Elizabeth Bernholz) il concetto si fa più chiaro, soprattutto nell’indicazione mutaforma che pone quel prefisso. Quattordici tracce claustrofobiche, oppressive, in cui la musicista britannica si presenta sia in versione robotica, con i consueti pattern synth a dettar legge, che in quella neofolk, per quanto filtrata da un permeante senso di devastazione. Lo stato d’angoscia è tattile, anche quando si prova a utilizzare l’arma dell’ironia. Forse si tratta del primo, autentico, disco post-Brexit.
Big|Brave, “A Gaze Among Them” (Southern Lord)
L’etichetta è quella giusta, l’intransigente Southern Lord fondata da Greg Anderson e Stephen O’Malley. I risultati sonori invece puntano avanti, attraversano gli oceani drone-metal dei loro padrini Sunn O))) per attraccare su sponde che rappresentano un incrocio inedito e straniante. Lentezze post-rock, timidezze shoegaze, cupezze doom sono solo una parte della questione. La novità più rilevante rispetto al passato è una virata quasi definitiva verso una forma canonica di intorpidimento mentale in cui la performance vocale di Robin Wattie ammalia e lacera. Non saprei dirlo in altro modo. Non so se esiste l’etichetta post-drone, ma è un abito che veste bene il nuovo operato del trio canadese.
Blanck Mass, “World Eater” (Sacred Bones)
L’ultimo ballo sul dance-floor fatiscente del mondo, quello che Benjamin John Power (ex Fuck Buttons) suona per demolirlo definitivamente prima di partire per il cosmo. Dal primo istante (il carillon dell’orrore a nome “John Doe’s Carnival Of Error”) ci catapulta in un marasma di estatica agonia, debitrice tanto dell’impostazione totalizzante tipica della scena EBM mitteleuropea quanto di un’allucinata e trasversale versione powernoise anni duemila. Noi restiamo qui, tra le macerie fumanti, a dondolare il capo con inni sghembi (“Silent Treatment”) e martelli tribali (“The Rat”), mentre lui è in viaggio su di un razzo per partecipare a qualche rave su Marte. Post-dance.
Liturgy, “H.A.Q.Q.” (YLYLCYN)
Si fa tanto parlare di post-black (metal, of course), più o meno dai primi dischi “coraggiosi” degli Ulver (fine anni novanta). In questo caso si tratta dell’ultimissima generazione, nella quale resta ben poco del circo satanico primigenio. “H.A.Q.Q.” è un album devastante, estremo perfino per i padri fondatori da cui deriva, con un concept che sembra uno chiccoso pacchetto deluxe di grafici software, a cominciare dalla copertina. Tra arpe, vibrafoni, archi, hichiriki e ryuteki, il combo newyorchese, guidato dal teorico Hunter Hunt-Hendrix, sviluppa un caos viscerale e futuribile, tachicardico e ferale, da cui è difficile riprendersi.
Daughters, “You Won’t Get What You Want” (Ipecac)
I Daughters non sono gli ultimi venuti, e parlare di post-noise per loro è quasi un’offesa. “You Won’t Get What You Want” suona come un nerissimo inno al clangore che celebra altresì il passaggio dalla ortodossa Hydra Head alla pazzerella Ipecac di Mike Patton. L’album è soprattutto il punto in cui la murder ballad diventa per la prima volta ultradark. Non Nick Cave e manco gli Swans, ma di certo entrambi. Così gli anni novanta resuscitano (putrefatti) dalla loro tomba, e i Grandi Antichi imbracciano la chitarra elettrica. D’altronde i Daughters sono di Providence, Rhode Island. Di fronte a cotanto funereo splendore, ovviamente, ogni giudizio estetico diventa pura castroneria.