Il tempo e la resurrezione: Mahler
“Il mio tempo verrà”
Questo l’anelito di Mahler per la sua opera. Ma qual è il tempo di Mahler? È la fluttuazione spazio-temporale nella sua musica? È nel chronos, nel kairòs, nell’aiòn o nell’eterno ritorno?
Il tempo di Mahler
L’arte, quando è il precipitato del genio, non può mai coincidere con le intenzioni. Ma procediamo per assurdo e facciamo finta che sia così, ascoltando la Seconda sinfonia, a cui l’autore associò più d’una volta un programma esplicativo.
Pare che il musicista boemo fosse abituato a dormire in una stanza piena di fiori e una volta, andato a riposare dopo la prima di un suo lavoro, abbia avuto un’allucinazione: un po’ come Peppino nel vedere Totò fare le orazioni ai suoi piedi, si immaginò morto.
Perché morire? Che valore allora ha tutta la vita, ogni istante, ogni pensiero, ogni emozione, ogni traguardo che l’ha composta e la compone or che me lo sto domandando?
Questo è il primo movimento della Seconda, intitolato Todtenfeier, cioè rito funebre. Un lungo componimento, quasi a sé stante, dove l’eroe, quello della Prima, muore, tra inquietudini, paure e scale discendenti che precipitano come la carne alla cenere o, meglio, come il terrore della carne alla cenere.
In seguito, Mahler compose dei movimenti successivi, che risultarono, poi, degli interludi.
Nel secondo, dopo un tempo richiesto di almeno 5 minuti durante il quale ascoltare il vuoto, guardare il silenzio, riaffiora, come un fiore notturno, il ricordo della felicità di gioventù, o, meglio, la sognata felicità del ricordo di gioventù.
Il terzo movimento, nel definirsi come la predica ai pesci di Sant’Antonio, che si rivolge al loro brulicare acquatico piuttosto che agli umani, paradossalmente, rappresenta con le note l’osservazione di una danza senza musica, due ballerini, al di là di un vetro, che si muovono e di cui si tenta di immaginare il ritmo, continuamente incespicando nella ricostruzione, fino a un urlo disperato, coperto e mostrato dal velo della finestra, ed è il ritorno della terribile scala discendente. Dovrebbe essere il momento del nichilismo, ma no, non arriva a tanto. È la disillusione, la lucidità, la sofferenza, la fine dell’ingenuità; badare bene, è il realismo.
Il quarto movimento è l’Ulricht, la luce primordiale, verso cui si vuole andare, tanto da dover scostare un angelo per procedere verso ciò che si merita e si desidera. È il primo intervento delle voci nelle sinfonie mahleriane, uno dei tanti collegamenti, voluti e temuti, con la Nona di Beethoven.
Una sinfonia che inizia con un funerale, pur procedendo a ritroso tramite il ricordo e il desiderio di alterità, ha ovvie difficoltà nello sviluppo e nel chiudersi. Trascorrono infatti sei anni, come per nessuno dei suoi componimenti, prima che Mahler abbia l’intuizione definitiva, tanto potente da voler quasi tenerla a sé stante: la Resurrezione.
Le trombe degli araldi del Giudizio squarciano il nulla, tutto l’universo possibile è una colonna di corpi sollevati dalle tombe e chiamati verso una luce. Un non-spazio dove “il tempo non vi sarà più”.
Da un punto di vista musicale riprende, e alla fine risolve, l’ansia interrogativa del Todtenfeier, ma non prima di riaffermare le questioni affrontate nei movimenti precedenti. Il più lungo dei cinque movimenti presenta un gruppo di idee parzialmente derivate da motivi in precedenza presentati e ora soggetti a trasformazioni che portano alla trascendenza.
Nel mezzo, quando il Grande Appello risuona con ottoni da e verso ogni direzione, sulle ceneri del mondo post-apocalittico un uccello intona un canto. È il ricordo della vita terrena che verrà smorzato definitivamente con la silenziosa entrata delle voci, vibrata, dal fondo della coscienza. Le liriche sono quelle dell’inno Auferstehen! di Klopstock.
È una voce profonda, che rappresenta ancora i dubbi (ascoltare il secondo “Vita immortale”, quasi amaramente velato) e che sale per sconfiggerli, con il canto del soprano che si libra sul coro, quasi un tentativo pietoso di abbraccio verticale.
Qui inizia un testo dello stesso Mahler, che parla ancora a sé, con le carezze alle sue insicurezze, col suo bisogno di consolazione, infine il ritorno delle voci maschili e, con loro, la forza del desiderio di una vita nuova, mentre i temi musicali della sinfonia sembrano anch’essi rinascere.
Ora i pensieri di Mahler vanno alla condizione umana tutta, con contralto e soprano sovrapposti, come una fuga. È il volo.
L’orchestra e le voci si ripetono, brancolano fino al finale raggiungimento della vittoria tonale: dal do minore ci si erge nel relativo maggiore. È il trionfo raggiante. Non è la resurrezione cristiana ma il destino di tutta l’umanità.
Oggi potremmo dire che la pandemia è la morte rispetto alla quale occorre rinascere, invocando, anzi credendo in, una resurrezione delle coscienze, verso un mondo nuovo. Ecco, questo potrebbe essere il tempo di Mahler, quello in cui la sua narrazione diventa realtà, si fa carne.
Ma andiamo, ora, fuor di retorica, e smettiamo di considerare la musica una successione di simboli atti a rappresentare un messaggio morale. Mahler è un poeta dell’utopia realizzata, ma essa lo è in musica, a “confermarne il fallimento nella realtà”. Se l’arte musicale non è l’oggettivazione della Volontà universale, è certamente il meno filtrato e simbolico dei linguaggi, con il suo spazio-tempo (“schwebend”, oscillando): suscita, non rimanda.
Non c’è alcun amato al capezzale, nel primo movimento, è una perturbazione tragica. Non c’è ricordo dall’oltretomba nel secondo, è la melanconia di un vivente, come il terzo ne è l’amarezza e il quarto un anelito. La resurrezione, che non è un concetto ebraico, senza un Giudice, come vorrebbe il cristianesimo, è il Desiderio, il desiderio del desiderio, il suo stesso smarginamento, l’anelito in quanto tale. L’arte è grande quando si supera, quando vuole strappare il limite. Questo avviene nel finale del quinto movimento.
Lì, in Bernstein che vorrebbe poter salire al cielo, nelle braccia dell’ultimo Abbado, nell’urlo muto di Chailly, lì è, immanente, nel suo tempo, la resurrezione.
Non illudetevi, non fingete, non credeteci, non verrà la vita nuova, vivetela!
Ché «presto sarà notte»
Si ringraziano Adorno, C.B., Schopenhauer, Principe, La Grange e, ovviamente, Mahler.