Lo sconcerto del primo maggio

Il quadro derogatorio intercorrente desta preoccupazione in tanti. All’improvviso, col vento dell’apocalisse a soffiare dall’Alpi alle Piramidi, zompettano, capricciosi, gli infatuati della nostra Carta costituzionale, arcistufi degli impacci dello stato d’emergenza. Sarà la primavera, sarà il distanziamento, sarà la claustrofobia, saranno i sondaggi sfavorevoli, ma pure gli ex-premier “filogovernativi” riciclatisi medium hanno parecchio da ridire. Persino quelli dei “pieni poteri” rivendicano chilate di libertà, salvo poi elogiare chi i “pieni poteri” se li prende al di fuori dei confini patrii.

Lo si noti. È tutto un cavillare sul malmesso vocabolario dei decreti, è tutto un Decretiful di azzeccagarbugli pronti a menar battaglia sul concetto di “congiunto”. Segnatamente, è tutto un dimenticarsi, anche con questi chiari di luna e in previsione degli inauditi pleniluni futuri, del costante calpestamento del primissimo articolo della Costituzione, quello che dice, con somma imprudenza, che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

A essere rigorosi, con i tassi di disoccupazione attuali, che aumentano esponenzialmente con il diminuire dell’età e con l’abbassarsi della latitudine, si può affermare che viviamo in un regime di metodica incostituzionalità, che l’Italia è una Repubblica democratica senza alcun fondamento. Una Repubblica democratica in cui, nella migliore delle ipotesi, ciò che rimanda il definitivo collasso socio-economico è il welfare familiare – laddove è ancora possibile –, un ammortizzatore sociale strampalato, prossimo alla consunzione.

Tale status quo, più che generalizzabile, è figlio di una cieca adesione a un modello di sviluppo cascante, dall’altissima entropia, dalla totale inefficienza sul piano della redistribuzione della ricchezza, foriero di disuguaglianze non più sanabili, che con la crisi economica derivante dall’effetto Covid-19 diventeranno bibliche per quota di drammaticità: si pensi al gigantesco comparto turistico, al suo indotto, al mondo della cultura, alla nutritissima schiera dei piccoli imprenditori. Una catastrofe economica, di cui già è disponibile il trailer, a cavallo di una catastrofe sanitaria senza precedenti.

Ovviamente, nei luoghi in cui la produttività è in depressione cronica, il colpo di grazia è a un tiro di schioppo. Dove l’arretratezza delle politiche di attivazione e di ricerca del lavoro ha trasformato il passaparola ispirato all’arte di arrangiarsi nel migliore degli uffici di collocamento possibili, sorpresa delle sorprese, la situazione non migliorerà come d’incanto. Nemmeno dopo la demolizione della curva epidemica e lo scongiuramento del terribile soundscape colonizzato dalle ambulanze. Al massimo, l’evasione di sopravvivenza potrebbe subire una mutazione genetica e diventare evasione dalla realtà.

In quei luoghi improduttivi, dalla liquidità ormai prosciugata, lo stato, per abitudine diventata necessità, faticherà a esistere, e le iniezioni di capitali dipenderanno da linee di credito poco raccomandabili, con successive riscossioni di rate usuraie. In mancanza di una rete sociale, in mancanza di un’assistenza pubblica adeguata, in mancanza di strumenti di sussidio non applicabili a contesti lavorativi refrattari alle rilevazioni fiscali, l’onere del sostentamento sarà quasi interamente a carico dei clan. Che già si stanno mobilitando per soccorrere a modo loro gli indigenti fornendo quei beni primari con cui di solito predispongono la compravendita dei voti e l’annesso controllo dei territori. Questo, di solito. Quando non ci sono pandemie di mezzo. Quando uno scenario di futura messicanizzazione è semplicemente credibile e non altamente probabile. Quando il primo maggio, preso sul serio, è una rievocazione ragionata del dolore sociale e non la sporgenza su un burrone di cui non si riesce a vedere il fondo.