Le carceri italiane restano quelle descritte da Turati

«Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, ma la pena di morte che ammanniscono, goccia a goccia, le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice. Le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori».

Così si esprimeva Filippo Turati in un celebre intervento alla Camera del 18 marzo 1904, poi ripubblicato in forma di opuscolo con l’emblematico titolo “I cimiteri dei vivi“.

Il 6 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è andata in scena una «orribile mattanza» ai danni di 292 detenuti che il giorno prima, in seguito a un caso di positività da Covid nell’istituto, avevano dato vita a una rivolta richiedendo, tra le altre cose, disinfettanti, mascherine e minore sovraffollamento nelle celle. La violentissima azione ritorsiva degli agenti penitenziari, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, ha ora indotto il gip del Tribunale locale a emettere 52 misure cautelari, già criticate, tra gli altri, da Gennaro Migliore di Italia Viva (ex Rifondazione Comunista) in quanto «inutile spettacolarizzazione». In particolare, la Procura di Santa Maria Capua Vetere contesta i reati di tortura pluriaggravata, maltrattamenti, lesioni, frode processuale e depistaggio.

Il giorno prima delle sevizie, un agente penitenziario della casa circondariale “Francesco Uccella” scriveva nelle chat acquisite dal telefono degli indagati: «Domani chiave e piccone in mano, li abbattiamo come i vitelli. Domate il bestiame». Pasquale Colucci, comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti, commentava orgoglioso dopo l’operazione: «Ristabilita la legalità a Santa Maria, quattro ore di inferno per loro. Non si è salvato nessuno. Applauso finale dei colleghi».

Dalle immagini si riscontrano botte, pugni, schiaffi a persone inermi, costrette a inginocchiarsi e colpite alle spalle. In un caso le violenze si abbattono persino su un uomo in sedia a rotelle. Un detenuto, in particolare, racconta di aver subito un’ispezione anale con il manganello, altri di essersi fatti pipì addosso per le botte, altri ancora di essere stati denudati o abbandonati in isolamento senza cure mediche. Nelle settimane successive molti hanno sofferto di shock post traumatico. Il 4 maggio 2020 Lamine Hakimi, un detenuto affetto da schizofrenia, si è tolto la vita, secondo i magistrati per le conseguenze psicologiche delle torture subite.

In quegli stessi giorni, nelle rivolte scoppiate in varie carceri italiane alla notizia della pandemia, morivano 14 detenuti in circostanze mai del tutto chiarite, ma subito archiviate da un sistema penitenziario sempre pronto ad autoassolversi e lavare le sue mani sporche di sangue.

Scriveva Fëdor Dostoevskij che «il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni». Ora, a parte che il dover ancora affidare il mantenimento dell’ordine pubblico a un’istituzione barbarica come il carcere testimonia lo stadio tutto sommato primitivo e ferino della nostra evoluzione, ma cosa racconta del nostro grado di civilizzazione il fatto che oggi il leader leghista Matteo Salvini, con il 20% di consensi, vada a portare la solidarietà sua «e di milioni di italiani» ai torturatori di Santa Maria Capua Vetere, e che come lui si posizioni l’intero centrodestra (circa il 48% negli ultimi sondaggi)?

In questo paese tira una brutta, bruttissima aria. Certo non la si respira nelle vie dello shopping, nelle piazze o nell’allegria stordita delle nostre spiagge, no; lì, a volersi distrarre bene, si può ancora credere alla favoletta dell’uguaglianza e della democrazia. Ma nelle carceri, dietro i cancelli delle fabbriche, nei campi e nelle baracche dei braccianti, nei mega-hub della logistica, in tutti i luoghi nascosti della produzione e della repressione, dove le telecamere (di solito) non arrivano, la violenza, la sopraffazione, la disuguaglianza sostanziale costituiscono non un’inspiegabile eccezione bensì la legge generale di funzionamento della nostra società malata.

Anche per questo orrori come quelli del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere suscitano tutt’al più qualche dichiarazione indignata di circostanza, ma quasi mai scandalizzano davvero il buon borghese. In questi casi, in effetti, costui si sente sempre in diritto di voltarsi dall’altra parte; tanto in fondo – questa la sua incrollabile certezza, magari anche inconscia e imbellettata da nobili attestazioni di civismo democratico e legalitario – le carceri sono immondezzai della società che mai lo riguarderanno da vicino.

Eppure quelle pareti e quelle sbarre sono molto più sottili di quanto possa sembrare; quei vestiti lordi di sangue e di urina, quei traumi fisici, quegli incubi, quelle morti sono molto più assillanti di ogni tentativo di rimozione sociale e psichica. Dicono tutto di noi, di chi siamo diventati, di cosa ci riserva in futuro la nostra magnifica, civilissima, organizzazione sociale.

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