Dire la verità ai cittadini in tempo di pandemia

Nella recente conferenza stampa tenuta dal presidente del Robert Koch Institut, Lothar Wieler, sono state ribadite alcune importanti previsioni sul corso della pandemia in Germania:
– il Coronavirus non si fermerà finché non avrà contagiato il 60-70 percento della popolazione;
in autunno ci sarà quasi certamente una seconda ondata di contagi (che, secondo il virologo Christian Drosten dell’ospedale universitario Charité di Berlino, potrebbe essere più violenta della prima);
– diversi scienziati ritengono probabile anche una terza ondata epidemica.
Wieler ha formulato queste ipotesi in un linguaggio secco, privo di perifrasi consolatorie, ma al tempo stesso garantendo dati alla mano che il sistema tedesco è preparato a reggere un eventuale nuovo impatto con il virus.

Mentre l’Italia sta per raggiungere i 30.000 decessi ufficiali (solo USA e Regno Unito al momento hanno numeri più alti), la Germania, nonostante il lockdown piuttosto permissivo, è considerata il secondo paese più sicuro al mondo nel controllo della pandemia. Un risultato, questo, che dipende da tanti fattori, primo fra tutti la solidità del sistema-paese e delle sue risorse finanziarie, che hanno consentito massicci investimenti in posti di terapia intensiva, tamponi, dispositivi di protezione individuale.

Ma un altro elemento decisivo, spesso trascurato, è la superiore qualità della comunicazione di scienziati e media tedeschi. Mentre sulle nostre reti televisive imperversano i bizantinismi di Silvio Brusaferro, le sparate arroganti di Roberto Burioni o Massimo Galli, gli svicolamenti di Giovanni Rezza, le tortuosità e i sorrisi stupefatti di Ilaria Capua, in Germania gli esperti dicono le cose come stanno. Senza toni allarmistici, certo, ma senza nemmeno infingimenti o ipocrisie.

Questo aspetto, a mio modo di vedere, assume un peso incalcolabile nella gestione di una pandemia, come di qualsiasi altro problema sociale, perché risparmia fin dal principio equivoci, incertezze evitabili, panico, negazione – reazioni complementari, queste ultime, in quanto entrambe spia di un’incapacità di affrontare razionalmente l’ostacolo sopraggiunto sul proprio cammino.

Non è un caso che in Italia, dove ormai la relazione genitore-infante si è progressivamente sovrapposta a quella tra governante e governato o a quella tra esperto e cittadino, gli scienziati più amati dall’opinione pubblica siano proprio quelli sorridenti e piuttosto accomodanti come Rezza e Capua; mentre un virologo come Andrea Crisanti, capace di mettere in sicurezza il Veneto con la sua équipe, ma poco incline a indorare la pillola nelle sue interviste, sia stato sostanzialmente oscurato dai più telegenici colleghi, pressoché onnipresenti nei salotti televisivi.

Del resto il circolo – virtuoso o vizioso – tra scienza e opinione pubblica è in qualche modo un riflesso del più ampio rapporto tra politica e società civile: se la politica infantilizza la società civile, quest’ultima non potrà che rispondere con comportamenti infantili, proprio come il bambino che ricorre al sotterfugio e alla bugia se è sorpreso a violare un comando ottuso; se la politica prova invece a responsabilizzare la società civile, potrà legittimamente attendersi la risposta di una cittadinanza autonoma e matura.

Questo schema spiega piuttosto bene la gestione italiana della pandemia: i governanti nazionali e locali, trasformatisi in asfissianti genitori, hanno sapientemente alternato il bastone e la carota, il lanciafiamme e le rassicurazioni puerili e ambigue, per occultare a una popolazione passivizzata, terrorizzata e blandita i tagli e le carenze di un sistema non all’altezza della sfida. Invece i politici e gli scienziati tedeschi, non dovendo danzare sull’orlo dell’abisso, né compensare l’imposizione di due mesi di arresti domiciliari a tutti gli effetti, hanno potuto fare più agevolmente discorsi di verità e di competenza a una nazione trattata da adulta, non prostrata, e dunque in grado di ascoltarli senza crollare.

In un suo saggio del 2006 lo psicologo Louis Herrera Amighetti scriveva che uno stile educativo fondato sul linguaggio ambiguo e sulla paura dell’assertività forma bambini incerti e adulti irresponsabili. Herrera Amighetti si riferiva soprattutto alla relazione genitore-figlio, ma le sue parole sembrano funzionare molto bene anche quando le applichiamo alla relazione esperto-cittadino o governante-governato in tempi di pandemia: in una relazione disfunzionale «si cerca di evitare la comunicazione diretta impiegando una serie di circonlocuzioni volte a minimizzare la richiesta di impegni seri e di risposte chiare, al fine di evitare di dispiacere l’interlocutore e provocare un eventuale conflitto. Questo aspetto è particolarmente evidente nei casi in cui si toccano questioni controverse o emotive. […] Questo stile di comunicazione ostacola la comunicazione ai bambini di ciò che si richiede e ciò che si vieta. I bambini a loro volta percepiscono questa ambiguità come incertezza sull’importanza di quei valori, e tutto ciò conduce di filato a una debole interiorizzazione delle norme sociali».

Nel periodo in cui vivevo a Berlino mi stupiva sempre, specialmente all’inizio, la sincerità quasi brutale con cui spesso i tedeschi sanno comunicare un appunto, una critica, un semplice disaccordo. A chi è nato nel paese del Cortegiano di Baldassarre Castiglione quella durezza, che lì chiamano berliner Schnauze, grugno berlinese, può spesso sembrare scontrosità, ostacolo insormontabile a rapporti cortesi e calorosi. Talvolta lo è effettivamente. Ma, quando si tratta di salvare migliaia e migliaia di vite, quel tono distaccato e avalutativo, tipico della scienza weberiana, e quella capacità di dire e di sopportare le verità più dolorose senza rifugiarsi in pietose menzogne, preziosa eredità del pensiero nietzschiano, si rivelano l’approccio più umano del mondo.