Amore tossico, il drug-movie italiano
Quando si parla di Claudio Caligari la tentazione subitanea è di accostare al nome del regista piemontese l’aggettivo “maledetto”. In realtà, non sarebbe giusto ridurne la carriera a una sorta di manifesto della sconfitta, nonostante le indubbie difficoltà riscontrate nel compimento dei i suoi tre film. Anzi, la vittoria di Caligari, purtroppo prematuramente scomparso cinque anni fa, consiste nella realizzazione di un cinema sincero, spietato, intransigente, crudo, senza compromessi di nessun tipo. Di quanti altri registi si può dire lo stesso?
Senza nulla togliere al bellissimo L’odore della notte e allo splendido canto del cigno di Non essere cattivo, l’opera di cui voglio parlare è Amore tossico, il suo esordio targato 1983.
Amore tossico non è semplicemente un film sull’eroina. Con il dovuto rispetto per Danny Boyle, sarebbe un errore ridurlo a un Trainspotting qualsiasi. Il film di Caligari è un mix tra un documentario e un occhio che spia le vicende di un gruppo di tossici di Ostia. Vicende e azioni che, pur nella loro ripetitività, riescono a incollarti allo schermo per 96 minuti senza alcuna possibilità di distrazione.
La recitazione del cast è fin troppo riuscita (gli attori, perlopiù, erano veri tossici e alcuni di loro, tra cui il bravissimo Cesare Ferretti, sarebbero morti di lì a poco) e il regista non ci offre altro che la verità. La tossicodipendenza di questi ragazzi è raccontata senza alcun tono moralistico. Cesare, Ciopper, Michela, Enzo, non sono certo i buoni, ma nemmeno i cattivi. Non sappiamo come ci siano finiti “dentro”, né sapremo se mai ne usciranno. Intanto, da spettatori-voyeur, assistiamo alle “sole”, alle “svorte”, alle crisi d’astinenza, alla prostituzione, agli scippi, alle rapine di questi sbandati senza futuro, cui ci si affeziona quasi subito. Ad esempio, suscita istantanea tenerezza e simpatia Cesare, personaggio fin troppo pasoliniano nel suo ruolo di disperato difensore degli amici dagli attacchi esterni e nella sua sensibilità che lo porta a dispiacersi per un barbone a cui ruba una sigaretta.
Come in altri film sull’eroina (tra cui voglio citare il riuscito Tunnel-Eroina di Massimo Pirri, altra gemma dimenticata del cinema italiano), anche qui il finale è tragico. Le musiche, dalle composizioni dolceamare del compianto Detto Mariano, alla canzone “Per Elisa” di Alice, sono la metafora eccellente della dipendenza psichica e fisica e dell’impossibilità di vincere la paura e “tirarsene fuori”. Il contrasto con la battistiana “Acqua azzurra, acqua chiara”, che accompagna i flashback giovanili dei protagonisti, sembra sottolineare l’irreversibilità di un percorso autodistruttivo che si conclude, non a caso, proprio sotto il monumento a Pasolini sulla spiaggia di Ostia.
Insomma, lontano anni luce dai film di droga hollywoodiani, “Amore Tossico” resta un gioiellino del cinema italiano.