La menzogna come destino politico

Donald Trump non ha mai goduto di un gran prestigio nel campo della ragionevolezza. Né si è mai distinto nel campo dell’onestà intellettuale. Né ha mai fatto della sobrietà, a partire dalla capigliatura, il suo cavallo di battaglia. Eppure, c’è un’ampia platea di americani, “l’America profonda” la chiamano gli analisti a caccia di nuove gentilezze, che lo seguirebbe anche all’inferno. E non malgrado i cumuli di falsità tangibili che infestano la sua comunicazione giornaliera, ma proprio in virtù di quei cumuli. Che non obbediscono a un approccio superficiale o a un clownismo estemporaneo, ma fanno parte di una solida strategia di marketing elettorale che ha per presupposto tanto il sistematico distanziamento tra verità e politica, quanto una certa drammatica predisposizione alla creduloneria di comodo ampiamente diffusa nell’opinione pubblica, una roba a metà strada tra ciò che gli psicologi chiamano bias, ciò che gli ermeneuti chiamano precomprensione e ciò che approcci euristici meno tormentati e più stradaioli definiscono l’attitudine a crogiolarsi nelle proprie e nelle altrui minchiate “interpretative” a prescindere da quanto la realtà le prenda a calci in culo. Esempio: secondo uno studio di Harvard, negli Stati Uniti, l’immigrazione percepita supera di tre volte quella reale, stima a ribasso.

Una distorsione percettiva (tra le tante politicamente sensibili), unita all’egemone disarticolazione del pensiero ricavabile dalle aree commenti di qualunque sito di informazione, che rende la futura ascesa su scala globale del pappalardismo decisamente più probabile dell’ipotetico affermarsi di istanze neoilluministe.

Il continuo ricorso alle distorsioni percettive, d’altronde, si rivela utile a trecentosessanta gradi. Non solo per plasmare la propaganda. Non solo per difendere l’azione di governo. Ma anche per delegittimare aprioristicamente qualunque tentativo di critica, bollato, per paradosso, proprio da chi mente con professionalità, come “fake news”. E tale pratica comunicativa, garantiamo, funziona con impeccabile efficienza: in un’eventuale partita a scacchi tra il politico affabulatore e il giornalista incalzante, l’opinione pubblica tende a preferire il politico, anche quando chi pone domande è un fine scacchista e anche quando chi deve spiegazioni fa saltare i pezzi dalla scacchiera.

Se così non fosse, non ci sarebbe una valida spiegazione per i numeri verdi preposti per le emergenze mediche andati in tilt a causa delle troppe iniezioni di candeggina o di disinfettante. Se così non fosse, sarebbe impensabile un presidente degli Stati Uniti che, indisturbato, dichiara pubblicamente, nonché irresponsabilmente, di impasticcarsi di idrossiclorochina per prevenire Covid-19 senza che la cosa abbia uno straccio di fondamento clinico. Se così non fosse, il primato mondiale del contagio da coronavirus non potrebbe mai essere veicolato come vanto nazionale. Né sarebbe pensabile l’invocazione dell’esercito in qualità di strumento di repressione per chi, stremato dall’ennesimo omicidio poliziesco a sfondo razziale, pretende giustizia nelle piazze.

Nel delirio mediatico in cui ci troviamo, fatto di politici monologhisti, camere dell’eco e disinformazione a pioggia, la menzogna metodica, a ritmi serrati, purtroppo, trova terreno fertile, generando eventi nel mondo reale, apparecchiando performance collettive compiacenti, consentendo la totale incoerenza, sdoganando la totale irrazionalità, distorcendo la percezione del paesaggio sociale, disattivando l’attacco giornalistico.

E senza i dovuti anticorpi, magari in un domani neanche così lontano, potremmo ritrovarci a contemplare il passaggio dal pappalardismo di lotta al pappalardismo di governo, dalla protesta come sottogenere della goliardata demenziale alla cura della cosa pubblica come virata grottesca dell’autoritarismo. Pensateci bene, nelle argomentazioni, nello stile e nel quadro valoriale di riferimento, vi sembra che Trump somigli più a Roosevelt o più al prode generale Pappalardo?