Lavoro e specializzazione: nessuno è inutile
Perché i giovani non riescono a trovare lavoro? Sempre più spesso leggiamo articoli che definiscono alcune specializzazioni come “inutili”. È davvero così?
Ci insegnano che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e Faber est suae quisque fortuna, ma poi scopriamo che Giurisprudenza e Lettere Classiche sono “facoltà inutili”.
Sempre più spesso, qualche giornalista sceglie di intitolare un articolo con queste ultime parole. Spiegando che tale inutilità troverebbe riscontro nell’effettiva impossibilità che il neolaureato inutile trovi un’occupazione adeguata alle sue inutili competenze.
Quasi tutti ne fanno una questione di skill mismatch: i ragazzi sceglierebbero un percorso di studi semplicemente perché gli piace, senza pensare alle prospettive future. Nel 2016, sul blog de Il Fatto Quotidiano, usciva un articolo intitolato Università, ora è ufficiale: alcune lauree sono inutili. Nel 2017, la stessa testata pubblicava la lettera di un ragazzo che si sarebbe suicidato perché non riusciva a trovare un lavoro stabile:
“Questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. […] Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle”
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Molti hanno argomentato che avrebbe avuto bisogno di un sostegno psicologico. Beh, facendo riferimento alle varie classifiche, gli psicologi rientrano a pieno titolo in quella categoria di professionisti “inutili”, costretti a sgomitare per trovare una collocazione sul mercato del lavoro. Apparentemente, perché le loro competenze non risponderebbero alla richiesta. Strano, se si considera che l’impossibilità di trovare lavoro porta a una frustrazione che può sfociare nella depressione. Ed è una condizione molto comune, soprattutto per chi ha studiato tanto senza vedere riconosciuti i propri sforzi.
Avete mai provato a cercare lavoro tramite un aggregatore? Vi si rimanderà a centinaia di altri siti e sarete costretti a inserire manualmente ogni singolo dato del vostro curriculum vitae, ricevendo in cambio centinaia di mail di spam. Raramente sarete contattati per un colloquio. Raramente riceverete una risposta da chi vi ha scartati senza intervistarvi. Ecco un nuovo girone dell’inferno: i sognatori. Ma c’è dell’altro.
Molti laureandi vengono praticamente costretti a iscriversi a una piattaforma di placement per poter completare la domanda di laurea. Fantastico! Qualcuno si preoccupa di trovare una collocazione ai giovani. Un sofisticato algoritmo valuta il “livello di match” tra i requisiti specificati nell’annuncio e le caratteristiche del laureato per proporgli di lavorare in un supermercato. Per carità, il lavoro è lavoro. Ma è giusto che uno strumento del genere proponga, per esempio, a un laureato in lingue di diventare “contabile junior” per una GDO? È naturale che ci sia uno skill mismatch. In realtà il fine concreto di questa piattaforma è vendere dati e curriculum dei laureati.
Sapete chi trova davvero lavoro in Italia? Chi conosce qualcuno. Il 90% dei laureati trova lavoro grazie a una raccomandazione. Chi non ha qualche conoscenza ha meno probabilità di sostenere un colloquio. Questa non è meritocrazia. Alcuni dati hanno evidenziato che al Nord ci sono più persone che si affidano ai centri per l’impiego. Avete mai visitato un centro per l’impiego al Sud? Spesso hanno una bacheca di annunci affissi fisicamente al muro con le puntine da disegno. Se chiedete aiuto, la risposta è: “Guarda lì”.
E i concorsi? Premesso che è difficilissimo intercettare i bandi quando escono, di frequente richiedono ai laureati infinite certificazioni delle proprie competenze, mentre i diplomati hanno qualche agevolazione per il fatto stesso di esser meno specializzati. Altri ancora selezionano professionisti formati in un determinato settore, ma con le competenze tipiche di chi si è specializzato in un campo diverso. Chi, invece, potendo concorrere, vorrebbe integrare le competenze mancanti, non sa cosa studiare.
La soluzione sarebbero gli stage. Tuttavia, questa parola in Italia significa solo: “Non ti pago, oppure ti pago una somma ridicola”. Spesso allo stagista non viene insegnato un accidenti di niente. Viene messo a lavorare per le competenze che ha già, ma senza la garanzia di un’assunzione.
Gli studenti delle superiori non sono messi meglio. Da poco vige l’obbligo della cosiddetta Alternanza scuola-lavoro. Sulla carta, l’idea è quella di fornire ai ragazzi della scuola secondaria di secondo grado una formazione professionale. Nel concreto, vengono messi a fare le fotocopie o il caffè. Con una fisiologica riduzione del tempo da dedicare allo studio. E perché non li si può pagare? Sarebbe tanto male abituare un sedicenne a guadagnare la sua paghetta? Sarebbe pericoloso. Meglio addestrarli a lavorare senza ricevere un compenso, così da adulti uno stage non retribuito gli sembrerà la normalità. La gavetta.
Eppure, non esistono “facoltà inutili”. Se ci fossero, basterebbe chiuderle per risolvere il problema. La questione è che non tutti i laureati hanno un canale adeguato per immettersi nel mondo del lavoro. L’Italia, ad esempio, è tra i Paesi che detengono il maggior numero di Patrimoni dell’Unesco. Possibile che un laureato in Conservazione dei Beni Culturali abbia tanta difficoltà a trovare un impiego? Perché, anziché costringere i laureandi a iscriversi a una piattaforma di placement, non si stipulano convenzioni che gli permettano, una volta laureatisi, di lavorare a tempo determinato presso un ente o un’azienda? Chi lavora nel suo settore di competenza è naturalmente più soddisfatto, e dunque più produttivo. Se si continua, invece, ad assumere personale attraverso canali informali, nessuno sarà nel suo “habitat” naturale. Finché non esisterà un sistema diretto di avviamento al lavoro, tutti avranno difficoltà a fare ciò per cui si sono specializzati.
Smettiamola, quindi, di condannare chi ha scelto uno specifico percorso di studi semplicemente perché in continuità con i propri interessi. Questa dovrebbe essere la norma.
Al contrario, non c’è da fidarsi di chi sceglie di specializzarsi in un determinato settore solo per trovare lavoro: una motivazione più debole può implicare facilmente una minore capacità di innovare all’interno del proprio campo di competenza.