Difendere Montanelli per opporsi alla polizia morale

Gianpaolo Pepe, collaboratore puntuale e mai banale di questa rivista, imputa ai difensori di Indro Montanelli, tra i quali mi schiero, l’appartenenza a una borghesia solo apparentemente rispettabile e, tra altre quisquilie, opinioni retrive.

Montanelli è un accidente, è stato scelto come paradigma del male dalla polizia morale, che si aggira sotto l’inquietante e allusiva insegna I Sentinelli.

Chi difende Montanelli, in questo frangente, è agitato dal dubbio e dal riconoscimento del male quale elemento inestirpabile e connaturato all’esistenza. Il che non significa assolverlo.

Nella sua invettiva, invero, Gianpaolo, si rivolge ai difensori dogmatici del fondatore del Giornale. E qui occorre un essenziale equivoco, giacché Montanelli fu un fustigatore di dogmatismi e conformismi. Il difensore dogmatico di Montanelli, dunque, non può esistere. Il dogmatico è ontologicamente antimontanelliano.

Come dicevamo, Montanelli è un mero accidente, la questione parte da lontano, molto lontano nello spazio.
A Minneapolis due poliziotti hanno ucciso un negro, il rapper George Floyd, soffocandolo quando era già immobilizzato. Si tratta dell’ennesimo episodio in cui la polizia americana agisce con violenza contro i negri. L’omicidio è ritenuto manifestazione ed esito di razzismo endemico e ha agito da detonatore di forti tensioni razziali, ordinariamente contenute dalla routine della quotidianità. Una situazione analoga a quella rappresentata da Spike Lee in Fa la cosa giusta, in cui l’agente esacerbante non vestiva la divisa ma era un allusivo caldo torrido. Proteste, diffuse e molto partecipate, sono divampate in tutti gli Stati Uniti (Sonar ne ha diffusamente riferito).

Come capita con una certa frequenza a partire dalla fine del novecento, dal dopo il crollo del muro di Berlino, da quando si è prodotta la disarticolazione delle condizioni socio-culturali di massa da alcuni presupposti delle ideologie che hanno segnato la contrapposizione politica novecentesca, anche in questa occasione sperimentiamo un fenomeno peculiare consistente nell’adesione di gruppi politici a proteste e rivendicazioni distanti dal contesto fattuale.

Di primo acchito pare di rilevare l’ansia di replicare ribellioni le cui premesse sono inesistenti o poco significative nei territori in cui esse sono importate. Il caso Floyd è emblematico in questo.

È di tutta evidenza che in Italia non sperimentiamo la tragicità quotidiana di un conflitto razziale endemico. Non viviamo in Italia la sistematica discriminazione dei negri né alcuna delle situazioni così ben rappresentate dai testi dei rapper black (si prenda per esempio Blood di Kendrick Lamar, metafora del rapporto tra negri e polizia americana).
Nonostante ciò molti avvertono la necessità non solo e non tanto di solidarizzare con i manifestanti statunitensi, ma di ricrearne in vitro le motivazioni, per importare il conflitto e copiare la rivolta. Origina da questo tentativo spasmodico di (ri)produzione del pretesto la vicenda Montanelli.

C’è un dramma e una pericolosità in ciò così come nell’inginocchiarsi della Boldrini in Parlamento, che, per altro, ha finito con lo svilire e banalizzare un gesto che nel contesto americano ha una potenza simbolica estrema e dirompente.
Il dramma e la pericolosità stanno nel conformismo che segue la scelta arbitraria di un caso a caso per farne il paradigma morale alla cui stregua identificare i buoni e i cattivi, il bene e il male. Il presupposto di azioni di censura politica e morale anche violenta.

Stante il vuoto contestuale confacente, sono scelti e astratti fatti lontani nello spazio o nel tempo o nello spazio e nel tempo. Ne deriva una situazione surreale per cui lotte che nel contesto d’origine sono sostenute dalla disperazione di una condizione sociale oppressa e dal tentativo di conquista di spazi per prospettive di una vita migliore, vengono qui asservite alla dissimulazione del vuoto di proposta politica e al tentativo di determinare un arretramento della libertà di pensiero e d’opinione.

Non solo. In America, come ovunque in questi casi, si rivoltano gli oppressi, gli esasperati. Sono i negri ad aver iniziato le proteste cui si sono uniti i bianchi e talora artisti, governanti, poliziotti stessi. Da noi, invece, la protesta è agìta non già dagli oppressi, veri o presunti tali che siano, ma per conto terzi da gruppi che, come detto , somigliano tanto alla polizia morale di degli stati teocratici e di cui è lecito temere l’aspirazione a stabilire di una verità di regime.

Cos’altro è, se non il tentativo di fare pulizia morale, l’azione contro Montanelli? Cos’altro è se non espressione di conformismo moralizzante la violenza riservata a chi difende la libertà di poter riconoscere merito e memoria all’opera di un uomo che ha anche fatto del male?

Moralismo, conformismo, manicheismo la storia ci insegna a riconoscerli come pericoli. E in questo paese sono pericoli ben più imminenti di quanto non lo sia il razzismo.

Difendere Montanelli, dunque, non è difendere, giustificare, condividere azioni nefaste, non implica un malcelato razzismo né un maschilismo violento e tantomeno un occhio tenero per la pedofilia. Difendere Montanelli e la sua statua è opporsi alla possibilità che qualcuno stabilisca con la forza cosa sia bene e cosa sia male, chi commemorare e chi no, è difendere la libertà e le fondamenta della democrazia.