Il Benevento è in serie A con Vigorito e tifosi speciali
È il 29 giugno, il Benevento vince per distacco il campionato di serie B e ottiene la promozione in serie A.
Dall’aeroporto di Napoli arrivare a Benevento e poi ripartire verso la stazione dell’alta velocità è un calvario. Cantieri finti in autostrada, traffico di quartiere lungo la strada statale. Il collegamento migliore è da Roma, via treno. Me lo dicono al bar Collarile, uno dei cuori del tifo giallorosso. Il mio editore non è mai stato lì e non lo sapeva.
Il nucleo antico della città è imperdibile. Tracce di una storia non indifferente si susseguono di passo in passo, dai più piccoli bassorilievi incastonati nelle facciate dei palazzi ai monumenti più imponenti. Sono le tracce di una storia che attraverso millenni ha plasmato il carattere dei beneventani, fieri e resistenti alle contaminazioni, ma non ostili.
L’euforia è composta. Tutti i quartieri della città sono macchiati di giallorosso, ma restano riconoscibili: nastri, bandiere, striscioni, vessilli. Quelle che appaiono befane sulla scopa, sono in realtà streghe.
Strega è il nomignolo della squadra, evocativo di antiche leggende sabbatiche.
I tifosi meno accaniti, quelli dei distinti e della tribuna, colletti bianchi e grisaglie professionali, sostengono che la gioia più grande sia stata la promozione in B del 2016, la prima in assoluto a 87 anni dalla fondazione. La successiva promozione in A (2017) fu una sorpresa, più sbigottimento che gioia, con immediata percezione di inadeguatezza.
Il presidente che ha emancipato la storia calcistica sannita da un’antica marginalità di risultati e potere, l’imprenditore che di fatto indirettamente scuote le flosce membra economiche della città, che introduce la scossa del successo in una terra rilassata, si chiama Oreste Vigorito. È un forestiero, originario di Ercolano. Imprenditore di successo nel settore delle energie rinnovabili, oggi è a capo di una holding con interessi diversificati. Si narra sia stato avvicinato da Berlusconi quando questi decise di disfarsi del Milan. Col fratello Ciro, cui è intitolato lo stadio, rilevò il Benevento dalla C2 nel 2006.
Quest’anno la promozione non è giunta inattesa. Il team guidato dal trainer Pippo Inzaghi è osannato dai media nazionali e internazionali: ha chiuso il torneo con sette giornate di anticipo. È un record. Ma non basta, non basta a Vigorito per penetrare, finalmente, la corazza che protegge nel cuore del popolo giallorosso il nome di presidenti perdenti.
Dopo soli quattro giorni dal trionfo, il 3 luglio, il Benevento perde seccamente a Crotone, secondo in classifica e in competizione per l’accesso diretto alla prima divisione. È lo spirito di qualche strega ad averci messo del suo, sin dalla definizione del calendario.
Ininfluente per i sanniti, la sconfitta è un tratto d’evidenziatore metaforico sul rapporto irresolubilmente algido tra Vigorito e tifosi di sempre, che a queste latitudini disdegnano gli occasionali, quelli arrivati allo stadio solo con i primi successi.
La tifoseria giallorossa si è forgiata sui campi scalcinati di trasferte nei meandri tortuosi della provincia italiana. È una tifoseria che attribuisce al football una dimensione epica e in essa trova la propria identità, la forza per viaggi improbabili e per resistere a risultati scadenti che a loro volta rappresentano combustibile per sopravvivere in una tragedia necessaria e ineludibile. Il successo non è previsto se non per una componente eroica. È evidente il richiamo alla storia dei sanniti che sconfissero i romani ma non dominarono mai.
Le radici di quella che è narrata come un’epopea calcistica si rivelano nei bar dei quartieri popolari, nei covi degli ultras scissi. Bisogna leggere tra le smorfie, le mezze parole, le allusioni, le evocazioni delle gesta di bomber di terza classe. Ricorrono due nomi, Spatola e Allegretti.
Il primo, titolare di un’impresa poco più che artigiana, è l’antitesi di Vigorito. È l’eroe minore e perdente la cui idolatria, ingigantita nel ricordo, resta inscalfita dal modello organizzativo e dai trionfi del successore.
La storia di Pino Spatola nel calcio è un mix di abnegazione, cavalleria selvaggia, improvvisazione, fallimento, calcio ruvido. Investe tutto sulla promozione e alimenta la sua popolarità presentandosi nelle case dei tifosi dei quartieri popolari, cenando con le famiglie, frequentando i bar in cui si forma l’immaginario del fedelissimi.
Al bar pasticceria Bianchini ci mostrano un video di quella che pare un riunione elettorale e che invece è marketing diretto per piazzare le tessere annuali d’abbonamento.
Il bomber della squadra di cotanto presidente non poteva che alludere a una figura mitologica: Gigi Molino era detto il Drago, goleador di campionati minori.
La rovina di Spatola e del Benevento si consuma in una semifinale playoff col Crotone (2004), per l’appunto. Il Benevento vince l’andata ma perde il ritorno in casa. Investigazioni giornalistiche e giudiziarie riferiscono di interessi extra calcistici con interventi anche della criminalità organizzata. Lo strascico della vicenda porta il Benevento al fallimento (2005) e all’uscita di scena, almeno formale, di Spatola.
I Vigorito intervengono l’anno dopo, risollevando una società stremata, ripescata in C2, un tifo deluso, umiliato, avvilito dall’oltraggio, rabbioso per l’ingiustizia, desideroso di riscossa. Portano progetti, professionalizzazione, estinguono ogni legame con epica. Impongono la forza anodina del capitale e dell’organizzazione.
Emblematica la vicenda dello storico magazziniere Gaetano Allegretti, un devoto servitore anche dei capricci dei calciatori. Non confacente a una logica organizzativa imprenditoriale, è estromesso dall’organigramma. Il calcio si è trasformato, non è sangue e merda, è capitale e merda. Il sangue non c’è più. La passione lascia il passo alla necessità di risultati pianificati, studiati, perseguiti con azioni coerenti.
Vigorito subisce (probabilmente infischiandosene) l’ingiustizia del ricordo di Spatola nei giorni del suo trionfo perché vince con il capitale e la managerialità, senza alcun tratto di gagliardia di provincia, perché il Benevento perde ancora Crotone.
Il tifo irriducibile Beneventano vede la gioia non colmarsi, manca la vendetta. Eppure i supporters giallorossi sono tra i più corretti d’Italia. È difficile sentirli urlare contro gli avversari. Anche questa è espressione della fierezza sannitica e dell’intangibilità del proprio humus. Insultare il prossimo significherebbe riconoscerlo come pari. Non si sente superiore il tifoso di Benevento, si sente speciale.
La Serie A lo esalta con moderazione.