I ladri e l’abisso calcistico

Italia, ladri. Azzurri, ladri.

La mancata qualificazione dell’Italia ai mondiali di calcio è un furto, il secondo consecutivo, alla nazione. Ai sentimenti di massa.
Un mattoncino ulteriore cavato dal muro, già sfaldato, delle emozioni e dei riti condivisi o anche solo subiti. Quelli capaci di fare da collante della coesione nazionale.
Una picconata al patriottismo da inno che vibra nell’aria, sfiata dalle finestre e assorbe nel turbinio anche gli scettici, i cinici, i misantropi.
Un colpo d’ascia al desiderio di esaltazione collettiva, all’attesa dei giorni trascendenti del mondiali. All’idea di appartenere a un grande paese, il secondo del mondo – l’Italia è seconda per numero di mondiali vinti nella storia.

Ladri i giocatori, i dirigenti, il trainer. Ladri tutti. Di emozioni, di identità, di storia.
È fenomenale la portata del furto.

A nulla vale la recente vittoria del campionato europeo di footbal. Il mondiale è altro. Nessuno ricorda le vittorie e le sconfitte nel torneo continentale, se non gli accaniti, i pico della mirandola, i fanatici. L’Europeo di calcio, d’altra parte, è l’Europa League (assonanza non casuale) delle nazionali. Un trofeo minore. Ha che fare col potere, con la gestione del business, dell’intrattenimento.

Il mondiale non ha bisogno di aggettivi. Il mondiale è il calcio. È la superlega delle nazionali. Sospensione del tempo, trasbordo in una dimensione altra, è tempo alieno. Andare a lavoro sapendo che poi c’è l’Italia. Chiusure anticipate, frenesia, dolce agitazione, echeggio di telecronache. Senza mondiali non esisterebbero i miti di Carosio, di Martellini e di Pizzul.

Suonerà blasfemo dirlo in tempo di guerra, ma l’eliminazione è una tragedia. E sconcerta l’articolessa di Sconcerti sul Corriere. Espressione di un giornalismo insulso, legato al potere, che chiede potere di non cedere di un millimetro anche innanzi all’inabissarsi del campo. Come se prevalesse il desiderio di galleggiare sulla melma. Stanno con i ladri anche lui e il giornalismo sportivo prono.

Non c’è nessuna analisi tecnica da fare. Né c’è alcunché che abbia a che fare con i novanta minuti dello spareggio.
Resteremo isolati dal mondo per 12 anni, tanti ne saranno trascorsi dall’ultimo disputato quando participeremo, si spera, al prossimo campionato mondiale. È un’era, l’era dell’abisso calcistico potremmo chiamarla, e non ha a che vedere col contingente o con 90 minuti.
Ha che vedere, invece, coi vizi del nostro Paese. Con l’autarchia della Serie A, governata senza strategia da piccoli interessi. Monocoli, meschini personaggetti, interessati a visibilità, dissimulazione di operazioni finanziarie, compensi di consigli di amministrazione.

L’era del’abisso calcistico ha a che fare coi razzismi di Tavecchio, con Lotito, le sue due squadre in serie A e i provvedimenti ipocriti, con i diritti TV, gli spezzatini del calendario, i rinvii. E poi, con l’inutilità della Covisoc e della procura federale, con le ASL che bloccano squadre e il ridicolo dei risultati a tavolino poi ribaltati. E ancora, con gli audio di registrazioni arbitrali spariti e la gestione padronale piuttosto che manageriale dei campionati. Ci sono anche la violenza tollerata, i cori razzisti che rimbombano nei microfoni, mentre gli arbitri fanno finta di non sentire. Gli stadi che non si costruiscono né ricostruiscono. E, per finire, c’è la zavorra di una FIGC svuotata, asservita, riverente.

Ladri. Non è un giudizio morale, tantomeno giuridico. È un fatto. Non definibile altrimenti: hanno rubato lo sport nazionale.
Le pene non interessano alcuno e non risolvono nulla. Interessa tutti, invece, che cessi il ladrocinio, che in campo scendano padri (ri)costituenti animati da buona volontà, grandi idealità e competenza, attaccamento sincero alla nazione.
Serve un Draghi del calcio. Serve Draghi. Presidente, se ne occupi Lei, per favore, di sistemare le istituzioni dello sport nazionale.