L’architettura della transizione alla Biennale di Venezia

La 17esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia ha aperto le porte al pubblico il 22 Maggio 2021, dopo un eccezionale anno di pausa.

La sospensione, dovuta alla pandemia, ha caricato più del solito le aspettative intorno all’esposizione e la domanda profetica del titolo How will we live together? (come vivremo insieme?), posta dal curatore Hashim Sarkis prima dell’avvento del virus, in questa fase di transizione sembra arricchire di ulteriori significati il percorso espositivo.

Questa Biennale ha superato ogni confine apparente della ricerca architettonica. Come ha detto l’ex Presidente Baratta, la curatela di Sarkis amplia lo sguardo sull’architettura come riferimento interdisciplinare, culturale e politico, e così si rivolge a tutti, non solo agli architetti.

Tra vita domestica esasperata e città vuote, l’esperienza di abitare in modo radicalmente diverso ha toccato tutti nei mesi passati.

Se la cattività del primo lockdown ci colse impreparati e generò una scossa spirituale profonda, nel ritorno invernale tristezza e noia hanno preso il sopravvento. Quel brulicare di talk, condivisioni e dibattiti on-line è stato sostituito dal collaudato smart working e dal puro desiderio di conquistare qualche ora della vecchia normalità.

Dopo tumulti e diverse difficoltà, siamo giunti, dunque, con entusiasmo alle vernici di questa Biennale, ma intorpiditi e a freddo rispetto a quella iniziale sensazione da fine del mondo che sembrava aver aperto le menti e messo tutto in discussione.

Sarkis aveva posto la domanda di dell’edizione corrente evidenziando il bisogno di un nuovo contratto spaziale.

La Biennale espone un ricchissimo insieme di casi e ipotesi a tal proposito, disegnando una composita mappa mondiale in cui questioni ambientali, politiche e sociali si intrecciano a scale molto diverse. Il filo conduttore è l’abitare. Il tema è come farlo insieme. L’insieme è inteso tra esseri umani, famiglie, gruppi etnici, tra noi e l’ambiente costruito, tra noi e l’ambiente naturale.

Al di là degli esiti estetici, l’architettura viene esposta in così tante declinazioni che la struttura dell’edificio e della città sono solo una piccola espressione tangibile del più ampio sistema di relazioni capace di far vivere insieme.

Dalla stanza al pianeta terra, la mediazione dell’architettura è la struttura che connette l’uomo a tutto il resto: il nesso tra mente e natura, nonché uno strumento di transizione per i mutamenti nel tempo.

La morfologia è una questione secondaria. Il problema è cosa fare per stabilire relazioni.

Recentemente è scomparso Humberto Maturana, il biologo che ha identificato nell’autopoiesi il principio della vita, e nei nessi tra le componenti dei sistemi le caratteristiche che definiscono la vitalità degli organismi.

Dunque, quali sono questi nessi per abitare?

In Biennale troviamo di tutto: la storia della costruzione nella struttura in legno a ballom frame della tradizionale casa nordamericana (USA), le parti della Co-ownership of action: trayectories of elements della casa giapponese come storie e memoria, le componenti costruttive delle Structures of mutual support delle Filippine come mezzo di collaborazione comunitaria.

Le relazioni di vicinato sono il tema di In Our Home dell’Albania. Il Garden of Privatised Delights presentato dalla Gran Bretagna pone il tema delle relazioni nello spazio pubblico privatizzato, mentre il rapporto con l’ecosistema naturale entra attraverso il metabolismo dell’acqua in una pausa tè nell’elegante spazio danese di Con-nect-ed-ness. Il padiglione olandese si chiede cosa sia il We (noi), esplorando i rapporti tra le comunità e l’interazione con l’ambiente urbano naturale. La Platform Austria racconta l’impatto urbano del fenomeno delle piattaforme in urbanistica. Le resilient communities del Padiglione Italia sono eterogenei luoghi di ricerca e laboratori aperti. La bellissima architettura civica del Kunu di Elemental, per i mapuche cileni, fonda uno storico compromesso pacifico attraverso l’architettura, per la convivenza tra popolazione indigena e imprese forestali.

L’attraversamento di questa Biennale è impegnativo. Si passa tra moduli abitativi, architetture, città, territori, navicelle spaziali, dati, arredi per uomini e animali, piattaforme, software, stanze, panche, torri, piccoli oggetti, teche con profumi di fiori estinti. Non si riesce a giungere ad una sintesi, ma è proprio il tema a renderlo impossibile. 

Le relazioni di comunità, le tradizioni locali, la giustizia ambientale, il metabolismo delle risorse, i rapporti tra le cose e molto altro, raccontano la prospettiva sistemica che tende alla transizione verso quel contratto spaziale auspicato da Sarkis, per abitare e costruire il futuro.

Non si può pensare di ordinare la complessità, ma solo di esplorarla per parti.

Questa Biennale di Architettura, quasi-post-pandemica, sembra quindi raccontare la transizione verso il futuro dei molteplici nessi vitali dei sistemi uomo-uomo e uomo-natura.

In questo eterogeneo panorama espositivo, l’architettura disorienta di nuovo l’idea di abitare già stravolta dal lockdown, ma qui lo fa razionalmente, supportandoci a pensare a questa transizione come pratica collettiva di migliori forme di coesistenza.