Addio a Gigi Proietti e alla sua voce

Incontrai Proietti in un camerino, dopo uno dei suoi one-man-show, quindi avevo avanti a me un mostro sacro in accappatoio, dedicato al rito dello struccarsi, madido, in quel finale del rito teatrale, santo come il sangue di una reliquia. Ho esagerato con i termini, proprio come lui avrebbe detestato. Se lo poteva permettere. Un me stesso romantico gli chiese di alcuni suoi testi e di una poesia, Questo amore, e lui mi parlò del genio di Roberto Lerici poco conosciuto ai più.

Grazie a Lerici, Proietti conobbe Carmelo Bene, che lo considerava tra le poche buone leve giovani per poi arrivarne a parlare come l’attore tecnicamente più bravo di tutti. Probabilmente, tra le tante cose che il nostro poté assorbire dalla conoscenza con Bene, ci fu un’attenzione particolare all’uso della voce, delle tonalità e dei timbri, diventate poi le sue armi più caratteristiche. Basti ascoltarlo nei due decenni successivi sia nelle varie messe in scena, sia nelle riprese di Petrolini, sia in quella macchina teatrale di A me gli occhi please, scritta proprio con Lerici. E fu proprio con quello spettacolo, farcito di tutte le trovate che la sua tecnica gli consentiva, che esplose la sua personalità non solo nel mondo degli artisti ma anche alla fama popolare. Tutti i grandi accorsero seguendo la scia che portava al Teatro Tenda, tra folle che riempivano ogni replica ad oltranza, da Fellini a Eduardo.

In quegli anni il cinema italiano era in declino, la commedia all’italiana chiudeva i conti con la società, con Amici Miei e Un borghese piccolo piccolo, per iniziare a parlarsi addosso con La terrazza. Per questo motivo, pur avendo lavorato in un film minore di Mario Monicelli, Proietti non trovò più i registi adatti a sfruttarne le doti istrioniche. Riuscii solo in piccole parti, ormai in alcune varianti di risacca o proprio fuori dal filone, come nella memorabile apparizione in Brancaleone alle crociate dello stesso Monicelli o in La proprietà non è più un furto di Elio Petri, per ritrovarsi in pellicole sperimentali, quali L’urlo e Dropout di Tinto Brass, e infine in una commedia leggera e satirica quale Meo Patacca. Da questa, comunque ancora calibrata sulle doti teatrali di Proietti, sarebbe poi finito, con lo stesso colore, in un cult-movie come Febbre da cavallo, circondato da altri attori derivati dalle migliori tavole romane, come Enrico Montesano e, in particolare, Mario Carotenuto, senza dimenticare, come si è fatto, il napoletano Francesco De Rosa. Da lì, purtroppo, il cinema non ha saputo proporgli che film barzellettieri, senza offesa per l’arte della barzelletta in cui, con i suoi tempi e i suoi registri, come per la sua verve popolaresca, ovviamente era a suo agio.

Un gioiello unico resta Casotto, di Sergio Citti, dove Gigi, non per niente l’omonimo ragazzo “de quartiere” che con i piedi sporchi va con l’amico Nando, in arte Franco Citti, a fare un bagno a Ostia, ottenendovi una commozione cerebrale e l’accollamento di una ragazzina incinta passata per vergine, interpretata da una Jodie Foster alle prime armi. Indimenticabili le scene surreali del sogno post-trauma, con un Gigi birbante e goffo che cerca di raggiungere una chimerica donna innamorata ma sfuggevole, nelle fattezze della stupenda Catherine Deneuve.

Raccontava, Proietti, delle platee romane di un tempo, quando un Gilberto Gil da bossa nova si urlava “cantaaaa!” e lui, Proietti, sapeva cantare e sapeva di dover raggiungere, senza microfoni, l’ultimo pagante in platea. La sua voce era potente, di grande ampiezza e ricca di armonici. Chi ha potuto ascoltarlo dal vivo l’ha potuta apprezzare davvero.

Per gli altri, sono da sottolineare le sue esecuzioni delle canzoni popolari romane che, come tutto quel tipo di repertorio localistico italiano, proveniente dai ruderi, dalle botteghe e dai balconi di ogni paese o antico centro cittadino, ha bisogno di interpretazione ancor prima che di bel canto. Restano infatti le migliori registrazioni, assieme a quelle di Gabriella Ferri. Siamo ovviamente agli antipodi culturali rispetto agli attuali standard pop ed alle vocine effettate e cincischianti dei talent show. La sua vocalità è stata trasferita anche nel sonoro cinematografico in qualità di doppiatore, dovendo spesso accontentarsi di offrire solo quella parte del suo corpus di attore a grandi capolavori del cinema, tra cui il Casanova di Federico Fellini.

Anni fa, litigai con i fans del Maresciallo Rocca, che lo aveva portato alla ribalta del pubblico delle fiction di Rai 1, quello dagli anni ’90 in poi, probabilmente quello che dai teatri tenda si sarebbe poi chiuso in casa avanti al televisore, da spettatore a telespettatore, a sorbirsi una pappa di stato, medio-borghese, di rappresentanza, dai buoni sentimenti e, specialmente, medi, così come media doveva diventare la sua recitazione in quei prodotti. Per Proietti era comunque un modo come un altro di fare il suo mestiere e, molto probabilmente, un mezzo per finanziare i suoi impegni teatrali. Ma si trattava di un Gigi depotenziato, di cui era difficile scorgere quel ghigno da impunito, quell’espressione cazzimmosa ed esplosiva e anche quella sua potenza tragica. Ovviamente niente del suo talento vocale.

Ma Proietti ha comunque sempre dedicato la sua vita al teatro, sin dalla ripresa del Teatro Brancaccio negli anni ’70, sempre in compagnia di Lerici, fondando con Sandro Merli il famoso “Laboratorio di Esercitazioni Sceniche”, per poi tornarne direttore artistico negli anni duemila (ruolo a cui ha dovuto poi rinunciare per altrui interessi) e contemporaneamente ideare lo scespiriano Globe Theatre nei giardini di Villa Borghese, dove, quasi a compimento della sua parabola attoriale, porta Edmund Kean nel 2017.

Ha continuato fino all’ultimo, anche nei mesi del covid, nella irriducibile volontà di non fermarsi e, specialmente, di non fermare il teatro, lavorando per la nuova stagione del Globe. Perché per un uomo antico come lui, la vita non poteva esserci senza il gioco, quella forma di saltellamento che l’esistenza deve azionare per poter alzarsi dalla polvere del pavimento, dell’insensatezza della serietà e dall’inesorabilità della morte. Non poteva che continuare, pur ormai vecchio in un mondo in cui la “cultura” è invece un wasting asset da poter chiudere con uno schiocco di dita, pur se inutilmente. E ha proseguito, pur se molto stanco, probabilmente grazie a quel grandissimo cuore, vissuto e morto per il palcoscenico, che lo ha fatto arrendere solo nel giorno del suo ottantesimo compleanno.

Scompare dal mondo Luigi Proietti, la sua grande persona e le sue performance, resta invece la sua figura, parte dello spirito di un’Italia che non c’è più, di una umanità e di un’arte che da quella e solo da quella, antropologicamente, potevano scaturire.
Che sia consentito, non a lui che non è più, ma a quelle spoglie, un abbraccio da parte di Roma e di una nazione che sono completamente occupate dalla sola preoccupazione della sopravvivenza!