George Floyd e la violenza delle immagini

Nel suo ultimo saggio, intitolato Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram (Einaudi, 2020) Riccardo Falcinelli analizza e scompone punto dopo punto una serie di convenzioni, regole ed espedienti che fanno sì che un’immagine – sia essa un dipinto, un fotogramma cinematografico, uno scatto pubblicitario o persino una foto su Instagram apparentemente innocua – arrivi al destinatario rendendo intelligibile il suo messaggio, attraverso scelte formali e compositive a volte talmente efficaci da essere utilizzate anche senza una precisa consapevolezza dall’autore. 

È forse per questo motivo – avevo ancora ben vive nella mente le analisi di Falcinelli – che la successiva lettura di un passaggio di un libro distante per tematiche e intenti mi ha fatto risuonare qualcosa di molto profondo, rimettendo ordine ai pensieri. In realtà, a pensarci meglio e con sguardo retrospettivo, quest’ultimo libro evoca fin dal titolo una potente immagine. Si tratta de Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari (Donzelli, 2020). L’autore è Alessandro Portelli, storico, critico, anglista e studioso a tutto campo della cultura di quella che in un volume precedente ha chiamato l’America Profonda

Per una volta il concetto di instant book assume un’accezione positiva: non più un insieme raffazzonato di pagine e concetti da mandare velocemente in stampa per sfruttare l’attenzione mediatica sull’argomento, ma un punto fermo che è frutto di anni di riflessioni e di consapevolezza critica.

Portelli, infatti, rielaborando e aggiornando i suoi articoli pubblicati perlopiù su “il manifesto” negli ultimi due decenni, parte dalla cronaca americana più recente, dalle proteste del movimento Black Lives Matter a seguito dell’uccisione di George Floyd, per ricostruire, a ritroso, i motivi e i momenti che rendono quest’ultimo drammatico omicidio solo la punta dell’iceberg mediatica in una nazione che sembra negare (ce lo ricordiamo Donald Trump?) che il razzismo, la violenza della polizia, l’ossessione delle armi, siano un morbo endemico nel Paese a stelle e strisce.

Ma in questo profondo percorso, dicevo, un’immagine si è fissata con prepotenza nella mente. Si tratta del passaggio in cui Portelli crea un significativo parallelismo visivo fra il drammatico presente e un’antica iconografia cristiana:  

«C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo della vittima a Minneapolis: san Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, perfino il cacciatore bianco sull’elefante […] Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, dello spirito sulla natura, della civiltà sul mondo selvaggio […] Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro […]». 

Le immagini del brutale omicidio di George Floyd, schiacciato a terra e soffocato dal ginocchio del poliziotto Derek Chauvin premuto sul suo collo, ci hanno inchiodati tutti, in ogni angolo del mondo, impotenti e attoniti davanti agli schermi. 

Che una determinata scena abbia il potere di riportare inconsapevolmente indietro nel tempo e nello spazio ad altre scene similari se n’era accorto il grande storico dell’arte Aby Warburg agli inizi del secolo scorso, coniando il concetto di pathosformel. L’immagine di George Floyd a terra, schiacciato dalla brutalità del suo carnefice, che ha riportato Alessandro Portelli all’immagine nota dello scontro di San Giorgio e il drago, risuona e vibra con forza verso altre immagini artistiche in cui la testa è schiacciata a terra, esibita, frammentata, brutalizzata. 

Donatello colloca il suo David/Mercurio in posa fiera, col piede poggiato sulla testa tagliata del gigante Golia/Argo, modellando un giovane eroe imberbe, soddisfatto dell’atto compiuto. Una testa mozzata, ancora guizzante di serpi, è quella mostrata da Perseo ai fiorentini in piazza della Signoria, opera di Benvenuto Cellini che nella lettura politica ammonisce sul ruolo di pacificatore del Duca Cosimo contro le serpi dei rivali al potere. Un corpo a terra, con la testa che sta per essere passata a fil di spada, è presente nella drammatica Decollazione del Battista di Malta di Caravaggio, firmata dall’autore con lo stesso rosso sangue che schizza dalla ferita, per non dire del suo – o di Artemisia Gentileschi –  Giuditta e Oloferne, altre teste tagliate e altro sangue. Ancora, Antonio Canova colloca il suo imperturbabile Teseo sul cadavere scomposto del Minotauro, la cui testa taurina pende ormai in avanti, priva di vita.

È su due immagini di teste novecentesche, però, che si potrebbe concludere questo elenco. Una è la serie degli Otages, gli ostaggi dipinti da Jean Fautrier in piena Seconda Guerra Mondiale: immagini potentissime, in cui la riconoscibilità dei tratti somatici delle teste sembra quasi divorata dalla materia, come se una figurazione esatta, realistica, di questi corpi martoriati non fosse più una strada possibile per l’arte, divorata ormai dall’indicibilità della violenza bellica. E infine un’ultima testa, quella di Self dell’inglese Marc Quinn, un calco esatto della testa dell’artista, realizzato con oltre quattro litri del suo stesso sangue, reso solido grazie al congelamento. Un lavoro che nella sua imperturbabilità si assume il rischio di meditare sulla vita stessa. È questa, in qualche modo e senza alcun intento di esaustività, la lunga catena di opere e di momenti dell’arte che mi si sono aperti meditando sul parallelismo suggerito da Alessandro Portelli. “Forme di pathos” mediate dal linguaggio dell’arte, dalla bravura dell’artista e dalla distanza storica, ma tutte immediatamente presenti quando, al sicuro sulla mia sedia, ho visto il dolore di George Floyd sotto il peso disumano del suo carnefice.