Noi siamo Maradona

A me del Calcio non frega nulla. A casa mia si è sempre tifato solo per l’Italia ai Mondiali. Eppure, uno dei miei primi ricordi d’infanzia sono io che salto sul lettone dei miei cantando “O mamma mamma lo sai perché, mi batte il corazón? Ho visto Maradona, ho visto Maradona, We Mammà, innamorato son!“.

Alle 17.32 di ieri, ora italiana, i telefoni hanno cominciato a suonare. Al di là del tifo, al di là della tristezza che proviamo in questo pezzo di storia del Mondo. E questo vuol dire qualcosa. Napoli in lutto, vuol dire qualcosa. Vuol dire tanto. Perché c’è una ragione se nelle case dei napoletani c’è il ritratto di Maradona accanto al Crocifisso. Ci sarà una ragione se un’intera generazione di bambini nati negli anni Ottanta si chiama Diego. È qualcosa che non ha a che fare con i miliardi che ora insozzano il bel gioco, non ha a che fare con i vizi e le sbruffonerie di certi calciatori cialtroni di oggi.

In queste ore, il Covid, è finito per secondo nelle agenzie di stampa dopo quasi un anno. Questo vuol dire qualcosa.

A Maradona si voleva bene nonostante fosse un legno storto, il genio e sregolatezza che faceva sognare perché era il ragazzo argentino alla ricerca del riscatto, che seppe accendere i sogni partenopei come solo San Gennaro sa fare. E gli si voleva bene come a quel figlio perennemente monello, geniale e disgraziato, quello scugnizzo lazzarone che fuori dal campo ha mostrato quanto fosse “umano, troppo umano”. Il mondo ha amato Maradona proprio per la stessa ragione per cui si ama Napoli: senza logica, con la pancia.

Qualcuno si affretterà ad elencare i suoi vizi privati, i suoi scivoloni pubblici, le sue malefatte. Sono questioni che non ci competono. Maradona non era la Croce Rossa, non era un Presidente, non era un Cardinale, non stava dietro ad una cattedra. Ci sarà, ancora, chi sciorinerà una serie di slogan come “non si piange per un calciatore”, “perché nessuno piange per i bambini che muoiono di fame?”. È vero, è tristemente vero.

Ma noi piangiamo anche Maradona per tutti quegli attimi di effimera gioia che a qualche zio o nonno troppo esagitato stavano costando le coronarie davanti alla televisione. Lo piangiamo in nome delle figurine scambiate sui marciapiedi nei pomeriggi d’estate. Lo piangiamo in nome di tutte quelle magliette con su scritto “Maradona 10” che vestono i sogni dei bambini nei campetti di tutto il Mondo. Non salvava vite umane Maradona, non ha salvato nemmeno la sua, spesso e volentieri. Eppure, ha incendiato strade, salotti, platee. Con qualcosa che non è populista ma che è popolare come il pallone e che sapeva ancora di barrio, di ginocchia sbucciate, di campetti dell’oratorio, di scarpe logore e di palloni di stracci. Si giocava così e si gioca ancora così nelle periferie d’Argentina. Nelle periferie del Mondo.

Quel calcio non esiste più, ma restava Maradona, anche se sgangherato, a ricordarci certi anni “belli”. Non è stato Madre Teresa di Calcutta, quella sì che è facile amarla. Meno facile è amare qualcuno come Diego Armando Maradona. Qualcuno dirà che se l’è cercata, dopo una vita di eccessi. Come se un uomo di successo non avesse ragione alcuna per perdersi. E invece a noi piaceva proprio per questo, perché non era un eroe. Era maledettamente imperfetto. Come tutti noi.

Una volta mio nipote mi ha detto: “Zia, come Maradona non ci sarà mai nessuno!”. È nato nel 2004. Questo vuol dire qualcosa.

Hasta siempre, Diego.