L’Università italiana non è malata, è marcia

Negli ultimi giorni ha fatto scalpore un’inchiesta comparsa su Repubblica intitolata Agnese nel Paese dei baroni, un vero J’accuse all’Accademia italiana, una Torre d’avorio inespugnabile, traboccante di raccomandazioni, concorsi truccati, nepotismo, favoritismo e meschinità varie. Un articolo che, in segreto, trova il consenso di alte sfere e dei loro epigoni che, tuttavia, non possono o non vogliono ammetterlo. In gioco c’è il potere e il futuro. Tutti gli altri, sentendo scottare la sedia sulla quale sono seduti, si sono immediatamente precipitati nella difesa corporativa del sistema, che non si abbatte né si cambia, ma va difeso a oltranza sciorinando cifre, ranking, sondaggi e percentuali come se si trattasse di alta finanza. Qualcuno dimentica, in malafede, che la statistica regge fino ad un certo punto: è la stessa materia che dice che se c’è un pollo e a tavola siam due, mangeremo mezzo pollo a testa. Anche se uno dei due è vegano. Le cifre ammassano, scoloriscono e non tengono conto dei drammi grandi e piccini che si consumano nei corridoi di mamma Accademia.

I danni vengono già compiuti in ingresso: un sistema a maglie larghe, sempre più larghe, che tollera il parcheggio e laurea tutti. Poco dopo il famoso processo di Bologna che ci ha donato il 3+2, il messaggio dall’alto è stato quello di far passare tutti, soprattutto nel triennio. Il risultato? Un’orda di laureati mediocri che, livellando il sistema, mettono in ombra gli eccellenti, che si ritrovano a condividere stesso titolo e stesso 110 e lode di tanti scansafatiche furbissimi. Dopo, se possibile, le cose peggiorano.

Quando si va a sondare quel mare sordido che oggi è diventato l’istituto del Dottorato di Ricerca, talmente valorizzato che nella Penisola, durante un colloquio di lavoro o presso una pubblica amministrazione, non si sa nemmeno cosa sia.  Quando venne accolto nel sistema italiano, con la legge delega 21 febbraio 1980, n. 28, ed istituito dal Decreto Ministeriale del 5 giugno 1982, il PhD accoglieva il senso profondo di questo titolo di cui si sono fregiati i grandi del Mondo: essere il più alto livello di istruzione. Ciò che fa di uno studente un ricercatore. Con il tempo si è trasformato in una fucina di garzoni accademici che si accollano le incombenze dei loro patrons, un po’ per imparare, un po’ per ottenere un’ipoteca sul futuro. Perché c’è una differenza tra essere in una commissione d’esame o far lezione per imparare ad insegnare: ben diverso è ritirare abiti in lavanderia, fare da chauffeur, scrivere da ghost writer libri di cui si fregeranno altri, preparare discorsi ai propri maestri, subendo ogni tipo di pressione e angheria.

Molto spesso tutto questo avviene dietro la corresponsione di una borsa di studio, ma il sistema prevede anche la favolosa idea del “dottorato senza borsa” nel quale, di fatto, si lavora gratis per l’Università per tre anni (e devi anche pagarci le tasse sopra!). Non a caso, durante le prove orali, la domanda sulle proprie finanze personali sono ricorrenti, come quella sulle proprie intenzioni riproduttive, esclusivamente per le donne. Fino a qualche ciclo di dottorato fa, l’esistenza di una doppia prova d’accesso al Dottorato, scritta e orale, lasciava qualche speranza al merito: la prova scritta, in particolare, che poteva rappresentare un’accetta sul raccomandato di turno e far vincere chi valeva davvero. Adesso la formula preferita dalle Università italiane è quella della valutazione di una proposta di ricerca a cui, eventualmente, segue una prova orale. Cosa significa? Totale e indiscriminata discrezionalità delle commissioni che scartano meritevoli, accolgono protegè, sistemano vecchi collaboratori, ricambiano favori, concedono grazie a figli di. Una pratica che scoraggia i meritevoli, che devono inserirsi tra la valanga di raccomandati e il fiume di meritevoli che devono cercare raccomandazione per riequilibrare i piatti della bilancia. Per gli illustri sconosciuti? Possibilità prossime allo zero.

Per chi decidesse di proseguire dopo quella naja che è il Doctor of Philosopy, il peggio deve ancora venire. Soprattutto se si tratta del settore umanistico: dove il confine tra ricerche senza senso e innovazione spesso è molto labile in confronto all’incontrovertibile solidità di una teoria scientifica o di un brevetto. In attesa di poter accedere a una carriera a livelli elevati, le strategie sono due: la prima, accettare di continuare a lavorare gratis in attesa di un’occasione, magari dedicandosi ad irrobustire le proprie pubblicazioni (molto spesso pagate di tasca propria a suon di migliaia di euro, visto che le case editrici hanno appeso al chiodo l’idea di scouting); l’altra è quella di procacciarsi un assegno di ricerca o un contratto di insegnamento. Nel mondo accademico italiano tutti sanno, che i bandi degli uni e degli altri, soprattutto i primi, sono perfettamente pilotati. Nel caso degli assegni lo dimostra il fatto che, guarda caso, le linee di ricerca indicate dai bandi sono affini a quelle di docenti e dei loro dottori collegati. Non si bandisce e basta, si bandisce per.

Quanto agli insegnamenti a contratto, ulteriore modo per collocarsi o collocare, il risultato è che spesso diventano un sistema di welfare per delfini e delfine, anche non precipuamente preparati nella materia specifica. Anche qui le possibilità per gli esterni sono prossime allo zero, a patto di conoscenze, simpatie, colpi di fortuna (leggi anche: accidente del predestinato e scalo di graduatoria). Per non parlare del trattamento economico: un gruzzolo dall’entità indecente per tenere un corso semestrale, le relative sessioni d’esami, ricevimento studenti, almeno per un anno. La perversione del sistema si è inventata anche due ulteriori strumenti “transitori”: l’RTDA e l’RTDB. I Ricercatori a tempo determinato di tipo A sono reclutati con contratti triennali prorogabili una sola volta, per due anni, dopo valutazione positiva delle attività didattiche e di ricerca svolte. Requisiti di accesso: titolo di Dottore di Ricerca o Diploma di Specializzazione Medica. I Ricercatori a tempo determinato di tipo B (RTDB) – reclutati con contratti triennali non rinnovabili, esclusivamente a tempo pieno. Requisiti di accesso: essere già stato titolare di un contratto per ricercatore di tipo A (!), o di un assegno di ricerca o post-dottorato, per almeno 3 anni, o titolare di analoghi contratti, assegni e borse in atenei all’estero avere l’abilitazione scientifica nazionale o un diploma di specializzazione medica.

Sempre più complicato, sempre più per membri di una conventicola piccola piccola.

Per il passaggio allo step successivo, diventare docenti associati o ordinari, il passaggio è lastricato di inferni vari grazie ad una magica invenzione che va sotto il nome di “Abilitazione scientifica nazionale”, la procedura di valutazione non comparativa gestita direttamente dal Ministero attraverso le commissioni nazionali di ognuno dei settori concorsuali. Con questa macchinosa procedura, che costa sudori, ansie e tanto denaro per pubblicare in fretta e furia, il sistema ti abilita a poterti presentare a un concorso per le posizioni di associato o ordinario. Come se tutto ciò che uno ha fatto prima non bastasse. Bisogna presentare le proprie pubblicazioni ad una rosa di baroni, molto spesso non esperti delle proprie linee specifiche di ricerca, per farsi ritenere degni di un concorso che chissà se verrà bandito e chissà se vincerai. Attorno a queste accademiche forche caudine si annidano le peggiori meschinità di questa macchina: raccomandazioni a iosa, pubblicazioni farlocche, telefonate “caldeggianti”, promesse, vendette trasversali fra vecchi baroni che ricadono sui loro discepoli. Molti appendono al chiodo l’esito positivo di questo esame ai raggi x della propria carriera, davvero per pochissimi c’è passaggio del Rubicone, ma per molti curriculum pur eccellenti, questo passaggio si rivela un’umiliazione pubblica: l’obiettivo non è più stroncare i bravi senza raccomandazione o gli illustri sconosciuti, lo si fa prima, in modo che non possano proprio giungere in sede di concorso. Per non parlare dei giudizi pubblici che spesso sbeffeggiano i candidati, ne puniscono l’interdisciplinarietà oppure il tenore iperspecialistico, stoppano i discepoli per punire i maestri per via di vecchie acredini tra dinosauri.

La situazione di stallo seguente alla colonscopia che è l’abilitazione scientifica può portarsi per molti anni: c’è chi ci rinuncia, chi alla fine ce la fa. E spesso gli eccellenti sono costretti a ricorrere ad amici dei loro padrini accademici per vedersi tutelati da commissari incapaci o poco attenti. Cosa attendi? Un concorso che deve essere bandito “per te”. Perché lì dove spunta un posto vacante, spunta anche già un vincitore. Che sia in gamba o meno, poco importa: i concorsi non sono concorsi, sono grandi manovre politiche legate alle spartizioni di potere tra cattedre, dipartimenti, “scuole” all’interno dello stesso settore disciplinare. Il concorso smette di essere tale: il che farebbe pensare che forse il reclutamento per chiamata diretta forse è il più serio di tutti, quantomeno ci risparmia tanta ipocrisia. Per i fortunati che dovessero passare attraverso questa gara ad ostacoli, l’ingresso in Accademia arriva tardi e con l’amaro in bocca, ma per gli onesti eccellenti è un inferno: si viene stretti tra una valanga di costrizioni burocratiche, di lacciuoli e valutazioni che vanno, con dei numerini infami, a valutare la qualità della tua produzione scientifica, sei messo al muro dalla maggioranza fatta di mascalzoni. Urlare, denunciare, battere il pugno sul tavolo ti aliena simpatie e riduce il tuo potere politico in accademia: il che si traduce in pochi fondi da gestire, poca forza nelle dinamiche scientifiche, poche possibilità per i tuoi allievi, mira delle vendette trasversali di chi odia la tua onestà, il tuo politicamente scorretto, il tuo rispetto per le regole.

Ma veniamo al dunque: esistono storie felici nell’accademia italiana? Certo, così come bacini di onestà. Ma sono una parte infinitesima. La maggior parte di queste storie va a infrangersi contro lavori malpagati, con la rinuncia alla carriera e alla vita personale (soprattutto per le donne, che in gravidanza vengono reputate non più utili per la Scienza), sedute dall’analista (analizzate i dati sulla depressione dei dottorandi!), trasferimento all’estero, professioni alternative. C’è chi con coraggio decide di dire basta, e si costruisce il suo cantuccio d’eccellenza fuori da questa Sodoma. Un capitale sociale e intellettuale immenso, che ogni anno viene preso e gettato via. I raccomandati sono ovunque, è la storia del mondo, ma nella Penisola la percentuale dei raccomandati senza merito schiaccia gli eccellenti, costringendo questi ultimi a cercare sponda in padri e padrini nobili che tutelino il loro futuro.

Il bravo deve farsi raccomandare o non ce la farà. Quasi zero chance, poi, per gli eccellenti senza protezione. È questa la grande tragedia. Ergo, puntare il dito contro una deriva giustizialista è ipocrita e scorretto, e gli uomini e le donne perbene nel mondo accademico dovrebbero essere i primi a chiedere una “Mani pulite” universitaria e non additare con sicumera chi ha il coraggio di dire la verità. A beneficio loro e di quelli che verranno.

Ricordatevi. Il raccomandato incapace è il medico che un giorno vi asporterà il rene sbagliato.