L’importanza del contesto

La festa del Primo Maggio, in Italia, ormai ha un valore puramente commemorativo. Celebra i lavoratori, quindi celebra una specie in via d’estinzione, precaria. Almeno per come il lavoro era inteso dagli agitatori del Novecento sociale, gli stessi che sono stati ideologicamente sepolti da gli ultimi 40 anni di cultura di governo neoliberista. Gli stessi che sono stati travolti dall’annacquamento generalizzato dei corpi intermedi, dei sindacati. Capaci ormai di allestire con risolutezza solo il discusso concertone e pochi altri souvenir della sinistra che fu.

Diritti sociali e diritti civili dovrebbero procedere di pari passo in un paese civile. Dovrebbero battagliare assieme restituendo al progresso il suo significato originario. Dovrebbero godere di un minutaggio congruo. Dovrebbero, appunto. Ma nello showtime del servizio pubblico in cui si parla di lavoro che non c’è, prendendo per buone le direttive della messa in onda, non ci sarebbe spazio per far politica (!), se non in presenza di un contraddittorio (!).

Circostanza in cui riesce a passare, giustamente, per martire della censura, per disturbatore, persino Fedez, che incarna alla perfezione la malintesa idea di rivoluzionario del piccolo borghese, abituato a giochicchiare con gli slogan liberal solo per rientrare in perimetri conformistici più fisicati.

Circostanza in cui avrebbero dovuto giungere copiosi gli editorialetti di solidarietà al marito della donna-brand da parte degli organi di stampa, alla continua ricerca di eroismi di giornata taglia unica. Avrebbero dovuto, appunto.

Invece, le cose sono andate diversamente. Per certo giornalismo il succo della vicenda non sarebbe da rintracciare nel merito (la censura), ma nel metodo (lo sputtanamento dei censori). Un argomento polemico che offre ai templari della libertà d’espressione a comando una formidabile opportunità per mantenersi accettabili presso se stessi: sviare.

Gli abominevoli virgolettati dei leghisti su figli gay da ficcare nei forni, per costoro, pare abbiano un’importanza periferica rispetto alla tutela del galateo da contrattazione, con l’annesso vincolo non scritto di segretezza, tra macchina organizzativa e artista. Soprattutto se i virgolettati, come tutti i virgolettati di questo mondo, sono fuori contesto.

Difendere il diritto al contraddittorio di alcuni esponenti di un partito storicamente xenofobo (i terroni, i negri, gli zingari, ecc.), storicamente omofobo (Pillon e la sua idea di natura) e storicamente criminale (prima secessionista – Padania libera! –, poi fraudolento – i 49 milioni di euro…), pare sia prioritario rispetto alla possibilità di andare oltre il copioncino prestabilito (che si parli di lavoro e basta!).

Meglio silenziare chi denuncia che sputtanare i silenziatori, un tempo anche stroncatori di carriere con facoltà d’ostracismo perché detentori del monopolio della visibilità. Meglio che non passi mai l’inaudito messaggio di un servizio pubblico in ostaggio delle fatiche diplomatiche dei partiti, delle guerre di posizione tra lottizzatori e lottizzati. Meglio essere editorialmente opportuni. Meglio rimandare le lezioni di libertà d’espressione a situazioni più favorevoli, magari quando saranno oggetto di censura artisti degni di questo nome, intellettualmente accettabili come tali, che abbiano posato le proprie chiappe perlomeno una decina di volte sul divanone rosso della Dandini. Difendere Fedez, in fin dei conti, è populismo, per i libertari gourmet è fuori contesto.