Federico, Viola e Jie: la scuola e le sfide della vita

Federico vuole diventare uno chef famoso, Viola invece lavorerà nell’azienda agricola di famiglia, c’è poi Jie che ha intenzione di continuare gli studi all’università, ma ancora non ha deciso se iscriversi a giurisprudenza oppure a scienze delle comunicazioni.

I giovani sono un vivaio da coltivare e la Scuola oggi è chiamata a dare il massimo per far trovare agli studenti la più ampia aderenza tra le loro inclinazioni e il loro futuro. Un compito arduo affidato agli insegnanti che oltre a tenere una lezione spesso diventano involontariamente un modello da seguire.

Henry Adams, scrittore statunitense dell’Ottocento interpretò bene questo sentimento quando affermò che «un insegnante ci contagia per l’eternità e non potrà mai dire dove si ferma la sua influenza».

Quante volte torniamo indietro nel tempo e basta poco per fare questo viaggio: un flebile ricordo di un’ora di letteratura o di scienze e vecchi pensieri circolano nella nostra mente per sedimentare negli anni ‘80 con la stessa trepidazione. Il piacere di ascoltare una lezione del nostro professore preferito, il timore di non trovare la giusta interpretazione per un passo dal greco antico, la delusione per un voto in matematica e le emozioni riaffiorano fresche come se fosse ieri.

Un grumo di immagini sbiadite e impressioni forti come da un ponte che attraversa decenni: uno sguardo veloce dopo questo sogno ad occhi aperti e torniamo nella scuola del 2021. Ma com’è la scuola di oggi? Cosa ne pensano gli alunni, i genitori e gli insegnanti stessi?

Sono molte le questioni aperte sul ruolo di questo presidio dello Stato ma sicuramente la Scuola è diventata più accogliente con una notevole attenzione agli alunni con bisogni educativi speciali, i cosiddetti studenti BES.

Un’istituzione, dunque, ora più vicina come ha affermato anche il ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi in occasione della presentazione del piano per l’estate: «una scuola ‘affettuosa’, che sappia stare al fianco dei nostri bambini e ragazzi, che, partendo dai più fragili, sia punto di riferimento per tutta la comunità e le famiglie».

Parole condivisibili e quasi commoventi che sarebbero state interpretate con un certo sospetto da molti docenti di 40 anni fa per cui la selezione e la competizione era un elemento fondante della loro metodologia didattica e storcevano il naso a tentativi di collaborazione tra studenti. Si preferiva far emergere il singolo, i migliori della classe, ad imitazione di una futura classe dirigente in fondo. Siamo nel periodo dei rampanti anni ‘80 del resto.

Molte cose sono cambiate a cominciare dall’impianto rigido della classica lezione frontale a favore di nuove e valide metodologie di insegnamento come il cooperative learning; la pandemia poi ha esacerbato le differenze socio-economiche ed è un dovere far percepire la scuola come più affettuosa.

Ma è sufficiente proporre un’istituzione più ravvicinata per rendere maturi i ragazzi di oggi?

Questo intento è educativo? Riesce a far percepire che la vita offre sempre delle sfide e quasi mai un supporto gratuito?

Domande che stimolano inevitabilmente una riflessione e un confronto con la scuola del passato spesso celebrata come un vero pilastro della nazione, un’istituzione granitica, specchio dell’epoca e forse poco propensa a comprendere le diversità degli studenti ma almeno sincera e non conformista, specie nella pretesa di poter dare a tutti le stesse possibilità.

La vera svolta per una scuola inclusiva inizia, infatti, solo con l’operato della ministra dell’istruzione Franca Falcucci che da alcune riviste specializzate è stata celebrata come una delle migliori di sempre. Una scuola, quella degli anni ’80, che comincia a voler abbattere le barriere dell’handicap offrendo un supporto mirato per ogni studente, ma pur sempre con un percorso estremamente selettivo. Era quindi anche naturale ai tempi il semplificare le scelte, suggerendo sbrigativamente ai cittadini del futuro che: se vuoi andare all’università devi iscriverti al liceo”.

Un luogo comune che probabilmente resiste ancora oggi, ma certo è che manca una fratellanza di impianto e di idee tra la DPR 88/2010 e DPR 89/2010.

Per i non addetti ai lavori ed esperti di legislazione scolastica, questi due decreti regolamentano l’assetto degli istituti tecnici e professionali e dei licei: anche ad un profano il linguaggio utilizzato nei due DPR sembra provenire da studiosi e impiegati ministeriali con un’estrazione profondamente differente.

Il profilo culturale che il liceo offre è sostanzialmente diverso anche solo ad apprezzare, nel DPR 89/2010, il periodare aulico con cui sono enucleate la progettazione curricolare e la maturazione delle competenze che lo studente deve raggiungere;  di impronta più tecnica e invece è il linguaggio dedicato al riordino degli istituti tecnici e professionali, dove si pone enfasi sui risultati di apprendimento che in particolare si concretizzano con delle competenze specifiche dello studente diplomato pronto ad affrontare il mondo del lavoro.

La scuola, del resto, deve offrire percorsi diversi per le diverse inclinazioni di Federico, Viola e Jie ma sembra esserci una sorta di peccato originale nella concezione di Scuola da parte di chi ne deve promulgare gli orientamenti.

C’è l’impressione generale, specie nella società pre-pandemica, che il lavoro pratico, manuale o tecnico sia valutato con una certa superficialità ma anche con la presunzione che basti un diploma a rendere tecnicamente competente un giovane, quando invece spetta al mondo del lavoro creare la forza lavoro ad hoc.

La Scuola, sempre più azienda, farebbe storcere il naso ancora una volta ai docenti di tante riforme or sono se la performance di un istituto oggi si misura anche con una bassa percentuale di bocciati.

Un parametro che avrebbe avuto una valutazione opposta nella scuola dei nostri genitori, quando chi voleva promuovere lo studio non temeva di elogiare l’inutilità della cultura e lo studio era inteso come un percorso per trovare la propria vocazione e non come un’anticipazione del lavoro che verrà.