Gotthelf: una bulla o solo la direttrice del New York Post?

Quando una donna del mondo della stampa è fatta fuori e non tutti la considerano una vittima

L’ultimo giorno

L’ultimo giorno di Michelle Gotthelf al New York Post è iniziato come tutti gli altri: un’ora di viaggio dal New Jersey, dove abita, al grattacielo del giornale, in gran parte vuoto (si era ancora in smart working); si è sistemata nell’ufficio dalle pareti rosa chewing-gum, abbellito da unicorno dipinto a mo’ di murale e un lampadario di vetro.
È lì in ufficio quando arriva il messaggio del capo: «ti aspetto nell’ufficio del personale, vieni subito».
In qualità di capo della redazione digitale del Post, Gotthelf non sapeva se aspettarsi una verifica sul suo operato o la comunicazione di una causa al giornale.
Arriva e scopre, invece, che è lì per essere licenziata.

«È la vostra decisione finale?» chiede, guardando Keith Poole, da poco nominato direttore del Post. «Temo di sì» fu la risposta.

Nemmeno il tempo di tornare in ufficio, che la Gotthelf si ritrova col badge disattivato. Così, dopo oltre vent’anni di servizio, la potente caporedattrice è costretta a dover entrare «come un ladro», infilandosi dietro qualcuno che apre la porta.
«Questa è una ritorsione», pensò.
Come osavano trattarla in quel modo dopo aver creato «la redazione più competitiva del paese» e senza addebitarle alcun cattivo rendimento?

Misoginia e controllo

Quando, però, ha impugnato il licenziamento, sostenendo fosse una ritorsione per aver riferito a Poole di essere stata molestata sessualmente da Col Allan, l’ex direttore del Post, le reazioni non sono state unanimi.
Alcuni hanno descritto la Gotthelf come una forte leader femminile in una vasca di squali misogini, perpetuatrice di una cultura tossica della redazione.
«Il modo in cui il Post è gestito può essere davvero riassunto con le parole misoginia e controllo”, dice un ex reporter. «L’unico modo per far sì che tutti i reporter di talento lavorino per te è farli sentire delle fottute merde. Quando fai sentire qualcuno una merda, cercherà costantemente di impressionarti”. Molti Posties (redattori del Post, così nel testo originale), attuali ed ex, riferiscono che la Gotthelf era colei che li faceva sentire così, delle merde.

La Gotthelf ha dichiarato di sperare che la sua azione legale determini cambiamenti positivi per le donne che lavorano al Post.
Una dichiarazione che ha suscitato reazioni sarcastiche.
Molti hanno deriso il suo ergersi a salvatrice femminista del giornale. «Michelle ricorre al femminismo per farne un’arma, ora che le fa comodo», dice Laura, una ex redattrice che, come molte delle fonti consultate, ha chiesto di essere citata con uno pseudonimo, temendo contraccolpi alla carriera.

Il Post, dal canto suo, definisce “imprecisa” la ricostruzione fornita dalla Gotthelf, perché il direttore Poole le avrebbe ben indicato il motivo del licenziamento: aver creato “discordia” nella redazione.
Il giornale nega, inoltre, che la Gotthelf sia stata vittima di una discriminazione di genere ed esclude recisamente che il licenziamento possa esser stato determinato dalle accuse rivolte dalla Gotthelf ad Allan.
Da parte sua, l’ex direttore sostiene di non aver mai molestato o proposto a Gotthelf di fare sesso. «Ha sostenuto la sua carriera al New York Post e l’ha promossa», dice, inoltre, il suo avvocato.

Nessuno dei Posties intervistati per questo articolo, però, ha espresso dubbi o perplessità in merito alle tesi della Gotthelf. E, anche se alcuni giornalisti non riescono a immaginarla come vittima, vista la sua influenza sulla redazione, molti hanno attribuito ad Allan comportamenti rozzi.

In più di 40 interviste, collaboratori ed ex collaboratori del NYP (New York Post) hanno descritto il giornale come un luogo dove, negli ultimi anni, si urla, si sbattono telefoni, si disprezzano i giornalisti senza che questi comportamenti siano censurati dalla direzione.
Accanto a nicchie sicure – «non sono mai stata chiamata con nomignoli o molestata. Non mi sono mai sentita predata o fisicamente a disagio», dice una reporter che non si occupa di cronaca – altri riferiscono che redazioni come quella dell’inserto della domenica o della la cronaca metropolitana siano state gestite da una vecchia guardia che confonde la dittatura con la leadership. Piuttosto che spezzare questo circolo vizioso – forse un’aspettativa elevata per l’unica donna al vertice – Gotthelf, secondo alcuni Posties, ne ha assecondato l’andazzo. «Michelle è come il bambino abusato che finisce per abusare degli altri», dice Laura.

Il Post dichiara di non tollerare nel proprio contesto di lavoro bullismo o misoginia e che qualsiasi accusa del genere non riflette «le condizioni attuali». Un portavoce ha fatto notare, inoltre, come la redazione abbia lavorato da remoto a lungo durante la pandemia e ha sottolineato il fatto che diverse donne rivestano ora ruoli apicali.

I Posties, gli sfigati dei media che però sanno scovare le notizie

Molti dei difensori della Gotthelf vedono l’ambiente duro del Post come l’humus necessario per il suo giornalismo sfrontato. «Fa parte di questa orchestra», dice il quarantaduenne ex direttore generale, Joe Kemp, a proposito di urla e imprecazioni nella redazione. «Ognuno ha la sua parte nella sinfonia».
Hailey, una ex reporter, è entrata al Post consapevole che non sarebbe stata trattata come «una stagista del New Yorker».
Il giornale sollecita sentimenti camerateschi tra i propri collaboratori, autodefiniti “sfigati” dei media, che, però, non hanno bisogno di lauree in prestigiosi college per fare scoop e battere i loro spocchiosi concorrenti. «La vasca degli squali – così è definita la redazione del Post – non è per tutti i pesciolini», dice. «Se ti chiedi com’è lavorare al New York Post, leggiti le fottute pagine del New York Post».

Gotthelf è sempre stata attratta dall’idea di “spogliare” le notizie e proporle nella loro essenza, con asciuttezza. «Amo lo sfrigolio di un tabloid», dice. «Amo raccontare storie nel modo meno noioso possibile».
La 49enne ha i capelli biondi, lisci come spilli, indossa occhiali neri oversize e parla velocemente, sempre pronta a rispondere alle domande prima ancora che siano finite di essere pronunciate.

Dopo la laurea alla Hofstra University di Long Island, Gotthelf si è occupata di crimini per un giornale del New Jersey e per un portale di notizie online. Assicurarsi che il pubblico conoscesse le storie criminali e aiutare le famiglie ad elaborare il lutto è stata la sua missione. «La cronaca nera mi ha davvero formata e dato una via per tutta la mia carriera», ha detto in un recente podcast. «Non voglio dire che sia una vocazione, ma è una parte di me».
Nel 2000, poco più che ventenne, fu assunta come reporter del Post. Si sentì subito a suo agio, come può sentirsi «un pesce nell’acqua». Elettrizzata dal tabloid che era l’anima fiammante del mondo delle notizie da quando Rupert Murdoch l’aveva comprato, a metà degli anni 70.

Con i suoi titoli a effetto, il giornale dà, per ogni notizia locale, l’impressione di uno scoop sensazionale. (“Porca vacca!” inizia un recente articolo su un caso di furto di carni, trasformando alcuni episodi di taccheggio in un’epidemia di “ladri che fanno soldi” degna di essere raccontata per più giorni).

A qualche reportage investigativo, spesso scritto da collaboratori di sinistra, si oppone una cultura editoriale che riduce la realtà a poliziotti buoni e ladri cattivi.
Ma anche i newyorchesi che detestano la sua linea editoriale non possono fare a meno di ridacchiare per le battute mordaci e intelligenti, in stile newyorchese, pubblicate sulle prime pagine del Post.
Va pur detto che i reportage sulla cruenta criminalità cittadina, gli scandali e i tafferugli politici sono spesso inarrivabili.

Negli anni ’80, il Post rappresentava uno stereotipo della redazione dove «la gente arriva con i postumi della sbornia, puzzando di liquore e i cartelli “kick-me” appesi agli schienali delle sedie», ha detto un ex fotografo del Post all’autore del libro America’s Last Great Newspaper War. Negli anni ’80, era ancora pieno di «alcolizzati pazzi che sparavano storie» che si consideravano una “banda di ribelli”, a quanto dice un ex collaboratore. C’era già meno dissolutezza nel periodo in cui Gotthelf arrivò, ma motivare con la paura era ancora la norma.

Col Allan, il rude amico di Murdoch

In quel periodo, Allan, un immigrato australiano, capriccioso e sboccato, amico di Murdoch, fu messo a capo della redazione. Allan sembrava immaginarsi come il capo di una nave pirata piena di fuorilegge. Era noto per una serie di episodi: aver pisciato nel lavandino del suo ufficio quando era caporedattore del Telegraph, aver lanciato sfide alcoliche nel vecchio bar del Post, Langan’s, e per aver portato politici di alto profilo allo strip club Scores di New York.

La maggior parte degli aneddoti riportati su Allan sembrano caricature hollywoodiane di un capo mostruoso, sistematicamente in modalità urlo, come quando gli si sono rotti i gemelli che chiudevano i polsini della camicia, dopo aver sbattuto le mani sulla scrivania, scagliandosi contro un collaboratore.

Luis Rendon, un ex senior designer del Post, ricorda di essere stato rimproverato da Allan nel 2019 per aver parlato troppo forte in un ufficio adiacente. Quando Rendon ha poi cercato di scusarsi, Allan gli ha risposto: «Vattene affanculo da qui. Non voglio più vederti».

Pochi mesi dopo aver preso il comando, Allan ha fatto piazza pulita di chi riteneva fastidioso o incapace. La Gotthelf fu scelta per rimanere, ricevendo una serie promozioni che l’hanno portata alla vice direzione della redazione cittadina nel 2004. La scalata di carriera le ha dato la possibilità di conoscere al meglio il senso di confraternita del Post.

A suo dire, comunque, fu inizialmente scavalcata per una promozione perché Allan voleva un «uomo forte nel lavoro». Quell’uomo era anche «sostanzialmente meno qualificato» e, secondo quanto ha riportato negli atti della azione legale, «non aveva alcuna esperienza nella gestione di una redazione».

Ancora negli anni ’80, al Post alcuni redattori maschi potevano toccare le “tette o il sedere”, secondo Meredith, una ex reporter. In una causa intentata un decennio prima della denuncia di Gotthelf, un ex Postie sostenne che il redattore David Boyle era noto per “sbattersi” e “strusciarsi” con le assistenti ventenni a cui si riferiva come “l’Harem di David”. (All’epoca, un portavoce del Post definì infondata la causa; il caso fu poi chiuso prima della fine del processo con un accordo tra le parti).

New York Post, bastione del giornalismo dalle suole consumate

Eppure il Post resta il sogno dei reporter. È uno degli ultimi bastioni del giornalismo fatto di suole consumate sulle strade per raggiungere i fatti e parlare con le persone, un giornalismo in cui i collaboratori vengono mandati a fare appostamenti o a frequentare i commissariati finché gli agenti non li conoscono per nome. «È stato di gran lunga il più divertente posto di lavoro che abbia mai avuto», dice Meredith. «È come se tu fossi un pezzo di New York», dice un altro ex reporter. C’è un forte cameratismo tra i redattori che deriva dall’essere catapultati insieme in situazioni intense. I Posties portano la loro durezza come un distintivo d’onore. Gotthelf si è vantata in una recente intervista: «qui siamo ancora giornalisti della vecchia scuola».

Nel 2007, è diventata la prima donna nella storia del Post a dirigere la sezione cittadina, il che significa essere a capo di uno staff di circa 60 persone e avere un ufficio privato.
Si divertiva a mettere gli uomini «un po’ a disagio» con l’arredamento esagerato. «Nessun soffitto di vetro qui! #Girlpower!!!!» recita la didascalia di una foto del suo ufficio postata su Instagram, con un boa rosa brillante e uno specchio con cornice a corona sul muro.

Anche se il Post ha iniziato ad aprire i suoi ranghi superiori a donne bianche come la Gotthelf, l’ingresso nel club dei ragazzi è rimasto in gran parte off-limits per i suoi colleghi di colore. «Come donna nera, non eravamo in molte», dice Emily, una ex reporter che ha lasciato il Post nel 2014. «Non mi è stata data l’opportunità di far carriera come invece ad altre persone è stato concesso». (In una causa del 2010, poi chiusa, una donna nera di origine portoricana sostenne di essere stata licenziata per aver lamentato il razzismo di una vignetta su Barack Obama pubblicata dal giornale).

Ai livelli dirigenziali, il Post si è rivelato essere un «ambiente di lavoro ostile», dice Gotthelf. Allan, sempre secondo la Gotthelf, si sarebbe rivolto alle redattrici con aggettivi come “imbrogliona”, “stupida” o “subdola lesbica”. Quando ha rotto il matrimonio, Allan si sarebbe rivolto a lei, durante le riunioni di redazione, in modo sferzante, chiedendo per esempio: «Chi ti credi di essere, mia moglie?» (Accusa contestata da Allan).
La Gotthelf sostiene che il suo capo si sarebbe scrollato di dosso ogni responsabilità innanzi alle lamentele, sostenendo: «non posso fare molto».

«Dovremmo andare a letto insieme», le molestie

Nel 2015, sempre secondo l’accusa della Gotthelf, le molestie raggiunsero l’apice. A una cena di lavoro con altri redattori, Allan «fece in modo di essere fisicamente vicino” e «starle fastidiosamente accanto». Nell’atto di citazione, Gotthelf sostiene di essere stata poi invitata a prendere un drink e che, una volta soli, Allan iniziò a parlare di sesso. «Dovremmo dormire insieme», le avrebbe detto, dopo aver indagato sulla vita sessuale di lei e aver rivelato dettagli sulla sua. Quando lei lo richiamò, Allan aggiunse di essere andato a letto con un’altra collega. «Sbalordita, la signora Gotthelf lasciò il bar e prese il primo taxi a tiro per andarsene», è scritto negli atti della causa. (Allan nega di aver agito in modo inappropriato o di aver detto di essere andato a letto con un’altra dipendente del Post).

La Gotthelf non denunciò immediatamente l’episodio, temendo ritorsioni. Lo fece successivamente, quando Allan divenne più aggressivo e, stracciando una lista di proposte di articoli, la cacciò da una riunione di redazione, urlandole «togliti dalle palle».

Hailey, che lavorava lì in quel periodo, ha descritto Gotthelf una sorta di cuscino ammortizzante, riusciva «in qualche modo a sorridere e sopportare» le sfuriate di Allan. «Mangiava quella merda a colazione ogni singolo giorno», dice l’ex reporter. «È incredibile, non l’ho mai vista piangere».
Subiva in silenzio la rabbia di Allan e le presunte molestie, facendo da scudo per i suoi reporter e per proteggere le collaboratrici da «uomini fuori controllo» in generale.
Hailey ha paragonato la Gotthelf a alla «sorella capo della confraternita», considerandola una mentore che l’ha aiutata a trovare notizie da prima pagina: «Ero la sua gallina dalle uova d’oro. Si è presa cura di me». Un’altra donna riferisce di essere stata protetta dalla Gotthelf «dalle tante porcherie» di uomini potenti alla News Corp. e di essere anche stata incoraggiata a presentare reclami contro il bullismo dei maschi. Un’altra ancora dice che Gotthelf l’ha aiutata a far carriera. «So di opinioni controverse», dice la donna, «ma la mia esperienza con lei è stata positiva».

Dall’altra parte ci sono donne come Nora. La lettura degli atti della causa avviata dalla Gotthlef l’ha indotta a ripensare ad alcuni episodi del 2019. La 30enne afferma che quando fu costretta a nascondersi in bagno per sfuggire a un redattore che, secondo lei, la seguiva in ufficio, Gotthelf le disse semplicemente di stare attenta all’uomo. Riflettendoci, pensa che quel consiglio fu «davvero una cazzata». «Sei il direttore donna di questa redazione», dice, «hai il potere di assumere e licenziare persone. Non dovresti proteggere il tuo giovane staff femminile?» Afferma sempre Nora: «La stupefacente Michelle ha coperto i comportamenti raccapriccianti dei miei colleghi fino a quando non si è trovata a subirli».

Una dozzina di fonti hanno riferito di aver sentito parlare di un presunto episodio in cui un redattore del Post, Paul McPolin, aveva fatto delle proposte indecenti a una reporter freelance. Contattata, Meredith, la reporter in questione, ha confermato che nel 2006, in un bar, McPolin le promise un contratto in cambio di un pompino. All’epoca Meredith rifiutò l’offerta, ritenendola espressione di un mix di sessismo tipico dell’industria editoriale e di atteggiamenti sfacciati indotti dal fatto che tutti stessero bevendo. Due persone che erano presenti affermano che Meredith riferì loro l’accaduto poco dopo. Uno ricorda che sembrava scossa.
L’interessato ha rifiutato di commentare, mentre un portavoce del Post ha negato che McPpolin «avesse fatto proposte alla reporter».

Meredith ricorda che successivamente le fu chiesto se volesse presentare un reclamo formale. Non sembrava, tuttavia, una richiesta sincera. Aveva bisogno di conservare il suo lavoro e temeva ritorsioni. Riguardando ai fatti, Meredith si rende conto che l’episodio fu «più inappropriato» di quanto avesse pensato al momento e avrebbe voluto che le fosse stato offerto più supporto, specialmente dalla Gotthelf (la quale non ha voluto commentare questo caso). «Forse Michelle avrebbe dovuto rassicurarmi sulla conservazione del posto di lavoro».

In una delle nostre interviste, la Gotthelf ha asserito di aver «visto trattare meglio di lei persone che, invece, avrebbero dovuto essere sbattute fuori». Nella causa evidenzia questo presunto doppio standard: dopo la denuncia, dice la Gotthelf, ad Allan hanno organizzato una festa di “pensionamento” mentre a lei è stato dato il benservito ex abrupto.

Il clima redazionale

Il caso Gotthelf ha costretto il Post a prendere atto e fare i conti con una redazione dominata da un clima tra il brutale e il tossico. Solo negli ultimi sei mesi, più di 20 Posties si sono dimessi. Un esodo che molti attribuiscono al fatto che lo staff non è più disposto a tollerare quel clima (un portavoce del Post nega recisamente questo scenario, definendolo non coerente con i motivi delle dimissioni dichiarati dai collaboratoti in uscita e, anzi, facendo notare che lo staff editoriale è in realtà in crescita).

Nora, però, racconta che la pressione per cavare fino a otto storie o notizie al giorno era così estrema che si sentiva incatenata alla sua scrivania. Anche per il costante controllo dei caporedattori, pronti ad alimentare agitazione, chiedendo sempre, durante le pause, «dove diavolo sei?».

Sempre Nora riferisce di essere stata, così, costretta a mangiare soprattutto cibi istantanei o barrette prese al distributore automatico per risparmiare tempo. Raramente è andata in bagno durante il lavoro. (Per far fronte allo stress e per superare i turni, anche di 16 ore nei periodi elettorali, si è data all’alcol, bevendo fino a cinque bicchieri al giorno). «La redazione sembrava una zona di guerra”», dice. «Camminavi sui gusci d’uovo, aspettando che qualcuno ti urlasse contro».

Una reporter ricorda di essere stata sgridata così ad alta voce da un collega anziano, in vivavoce, nel 2020, che la sua amica, che stava guidando, si è fermata, sotto shock. Altre collaboratrici hanno riferito di essere state molestate sessualmente da fotografi freelance e sono convinte che l’azienda non abbia adottato politiche e provvedimenti per prevenire quel tipo di abuso di potere. (Un portavoce dell’azienda riferisce, invece, che «il Post ha una rigorosa politica in tema di molestie sessuali sia per i dipendenti che per i freelance», che le lamentele sono state affrontate e i fotografi freelance accusati sono stati licenziati).

Diversi ex reporter che lavoravano per il giornale domenicale dicono di essersi sentiti intrappolati in un costante stato di paura dai loro redattori. Descritto dal temperamento particolarmente volubile è McPolin. Adam Schrader, un ex produttore web e reporter, ricorda di aver visto McPolin diventare paonazzo mentre «urlava molto, molto forte» e imprecava contro un collaboratore junior per un malinteso, nel 2019. (Il problema è stato affrontato dalla direzione Risorse Umane, e il Post sostiene che gli accessi d’ira di McPolin fanno parte del passato).
Mentre più ex collaboratori del dorso domenicale riferiscono di essere stati esasperati, qualcun altro dice che McPolin difendeva anche con veemenza i suoi reporter e li trasformava in giornalisti migliori.

Diversi reporter ricordano di essere stati rimproverati per aver richiesto del tempo libero. Alcuni sono finiti in terapia a causa dello stress. «Immaginavo di scontrarmi con un autobus per non dover andare al lavoro», dice un ex dipendente. «Ho ancora sintomi di PTSD (Post Traumatic Stress Disorder – stress post-traumatico, una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche) originato da quell’esperienza».

Nessuno si aspettava che il Post fosse consapevole e attento a temi sociali sensibili, ma il clima redazionale descritto appare insensatamente discriminatorio. Alcuni collaboratori della redazione cittadina sostengono che la Gotthelf incaricasse il suo stesso staff di maltrattare i giornalisti. «Pensavo fosse un’icona femminista», dice Nora, «ma si è rivelata fredda come gli altri». I Posties descrivono il managing editor della Gotthelf, Dan Greenfield, come il fidato scagnozzo che eseguiva fedelmente il lavoro sporco che gli veniva commissionato. Mentre alcuni lo hanno definito corretto e professionale, altri dicono avesse un temperamento fumantino, specialmente quando il Post veniva battuto dalla concorrenza.
Un ex collaboratore dice di aver presentato un reclamo contro Greenfield alla fine del 2021 per il suo comportamento ostile, che il Post asserisce aver risolto.

Gotthelf spietata e dura, ma giusta

I collaboratori sostengono che la Gotthelf non fosse un’urlatrice, ma avesse uno stile di leadership spietato, e il solo spuntare del suo avatar viola-unicorno su Slack (app di messaggistica per aziende) li faceva trasalire.

Dan Good, un redattore del turno di notte che ha iniziato al Post nel 2012, è ancora oggi tormentato da una mail ricevuta tempo addietro Gotthelf. Le aveva scritto per dirsi amareggiato nel notare che la storia pubblicata online, a sua firma, su Jennifer Lopez che si esibiva per i dittatori, fosse stata pubblicata a firma di un altro giornalista sulla prima pagina del giornale cartaceo. La Gotthelf, inserendo per conoscenza i suoi capi nei destinatari del messaggio, gli scrisse una risposta tagliente: «non abbiamo preso niente dal tuo pezzo perché non c’era niente da prendere». «Non hai idea di cosa stai parlando, quindi basta con le sciocchezze. Personalmente, penso che saremmo meglio serviti da un redattore notturno che non si dà pacche sulle spalle per fare il minimo indispensabile».

Good ammette che il suo pezzo fosse tratto da un comunicato stampa, ma era ancora scioccato dalla risposta violenta ricevuta, e soprattuto per essere considerato «così in basso nella redazione». Iniziò, così, a cercare un altro lavoro e dice che il messaggio di Gotthelf “mi ha fatto davvero mettere in discussione il mio posto nei media di New York e interrogarmi se fossi abbastanza bravo per stare in quel gruppo”.

Un ex Postie descrive Gotthelf come un personaggio di Mean Girls (serie Tv americana). «Se ti odiava, era una terrorista», dice Chloe, una reporter dello staff. Ma aggiunge che Gotthelf sceglieva anche giovani donne a cui fare da mentore, e quelle nella sua cerchia ristretta tendevano ad essere estremamente leali perché lei «avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro».

Il giorno in cui dovevo intervistare Gotthelf per la prima volta, alcuni dei suoi difensori hanno improvvisamente voluto parlarmi. Mi hanno detto che mentre lei poteva essere diretta e tagliente, qualsiasi paragone tra lei e il comportamento di Allan sarebbe stato assurdo. «Non è nemmeno nello stesso universo», dice un redattore. Un altro ex redattore riferisce di non aver mai visto Gotthelf fare «qualcosa che potesse superare il limite, in tutti gli anni di lavoro con lei».

I sostenitori della Gotthelf dicono che la sua leadership, «dura ma molto giusta» ha spinto i collaboratori a scrivere testi più nitidi e a produrre quel tipo di giornalismo accurato e imparziale che non era apprezzato da Allan o Murdoch. «Era una redattrice di notizie che si impegnava a fondo, dura come le unghie, che faceva quello che doveva per ottenere le cose», dice un redattore, «ma non è la cattiva del Post».
«Se non riconosce il talento in qualcuno, non ha paura di dirlo», dice Kemp, l’ex direttore. «Questo potrebbe sembrare un atto di bullismo. Ma quando sei caporedattore, devi prendere delle decisioni». Forse era tenuta a un doppio standard: «La gente è abituata ad avere capi maschi che sono bisbetici e parlano male”, dice un ex collaboratore, ma quando una donna fa la stessa cosa, “si arrabbiano, sbagliando”.

La Gotthelf ammette di essere «molto, molto acida» e «molto precisa». Certo, a volte può essere «forse un po’ troppo diretta», ma quando i collaboratori pongono problemi personali, dice, «darei letteralmente tutto per chiunque».
Non cerca scuse, è impossibile «essere teneri» in un lavoro così intenso. A volte diventava brusca con le persone e se ne pentiva in seguito. «Sono così orgogliosa di tutte le esclusive che abbiamo pubblicato e delle storie con cui ho lasciato il segno», dice, «e poi c’era quella terribile cosa di “non mi piace quello che devo essere”».

Anche alcuni dei critici della Gotthelf hanno provato a comprendere come possa essere stata condizionata dall’ambiente. «Come donna in quel posto, dovevi essere assolutamente spietata», dice Meredith.

Nel 2016, Gotthelf ottenne un piccolo risultato. A seguito delle sue denunce di molestie, Allan fu costretto a dimettersi, seppur temporaneamente. (L’avvocato di Allan dice che questo non è vero e che non era nemmeno a conoscenza della denuncia di Gotthelf al capo del personale).
Murdoch, comunque, secondo la citazione, andò in redazione per salutarlo e complimentarsi, definendolo «uno dei più eccezionali redattori della sua generazione».

Gotthelf fu promossa a managing editor, un “evidente sforzo per proteggere” Allan e tenerla tranquilla, sostiene. Nel 2019, poi, Gotthelf divenne caporedattrice dell’area digitale, nonostante la sua esperienza fosse maturata nella redazione del giornale cartaceo. In più interviste, ha parlato con orgoglio della gestione della redazione, vantandosi che «ogni reporter e ogni articolo è passato attraverso di me».

In quello stesso anno, Allan ottenne un incarico come collaboratore esterno, consulente. Gotthelf sostiene che era terrorizzata dal suo ritorno. Solo poche settimane prima, sempre stando a quanto riferito negli atti giudiziari dalla Gothelf, lui l’aveva chiamata, in stato di ebbrezza, per rinfacciarle di aver bucato una storia, pubblicata invece dal Daily News.
Nella citazione la Gotthelf sostiene che l’amministratore delegato della News Corp., Robert Thompson, e il capo delle risorse umane le assicurarono che non avrebbe dovuto rapportarsi ad Allan.
Eppure, “sapevo che si sarebbe vendicato”, dice.

All’inizio, secondo la Gotthelf, Allan ebbe “la coda tra le gambe”. Ma dopo pochi mesi, tornò ad occupare il ruolo precedente e divenne il suo “supervisore de facto”. (Ci sono state alcune vicende significative durante il periodo in cui la Gotthelf fu caporedattrice del digitale. Almeno una di queste lei la attribuisce agli ordini di Allan. Sostiene, in particolare, che Allan la costrinse a rimuovere un post sull’accusa di stupro mossa dalla scrittrice E. Jean Carroll a Trump, definendo i fatti «merda senza fondamento».
Quando lamentò a Thompson e alle Risorse Umane che Allan non doveva essere il suo capo, la Gotthelf si sentì rispondere «se lui ti dice di fare qualcosa, tu la fai». (Il Post nega questa circostanza.)

Il tradimento sulla vicenda Biden

Dato il potente ruolo, alcuni Posties pensano che la Gotthelf non abbia fatto abbastanza contro queste direttive censorie.
Diverse fonti ritengono, poi, che abbia tradito il suo premio come “reporter d’oro” in occasione di una vicenda del 2020, relativa alla famiglia Biden.

Gabrielle Fonrouge era “la versione giovane di Michelle: impavida, dura e incredibilmente ambiziosa”, secondo Nora. Quando il Post ebbe tra le mani i file del portatile di Hunter Biden, ottenuti per il tramite dell’avvocato investigatore di Trump, Rudy Giuliani, alcuni membri dello staff obiettarono si trattasse di informazioni non sufficientemente corroborate. La direzione aziendale, secondo una ricostruzione del New York Times, decise di pubblicare comunque lo scoop, che poi fu confermato nella sua fondatezza. Il principale autore dello scoop non si firmò, mentre il pezzo fu pubblicato sotto la firma dalla Fonrouge, che sempre secondo il Times “avrebbe avuto poco a che fare con la vicenda” e che, ovviamente, ne trasse notorietà.

A Nora questo episodio le fece capire che Gotthelf avrebbe “letteralmente accoltellato chiunque”. (In risposta a una richiesta di commento, Fonrouge dice di non essere autorizzata a parlare dell’episodio).

Qualsiasi controllo Gotthelf avesse sulla redazione come caporedattore digitale, non l’ha mantenuto a lungo. All’inizio dell’anno scorso, Murdoch le ha anteposto Poole, uno dei suoi fedeli luogotenenti, proveniente dal tabloid britannico The Sun. Molti collaboratori ipotizzarono che l’arrivo di Poole avrebbe dato luogo ad guerra direzione che avrebbe visto la Gotthelf soccombere. «Penso che a Keith Poole, autodefinito grande guru digitale, Michelle non servisse a molto”, dice Laura, l’ex redattrice.

Prima di lasciare il Post per la seconda volta, Allan augurò minacciosamente buona fortuna a Gotthelf e passò alcune settimane a informare Poole della vicenda giudiziaria in atto.

La Gotthelf ritiene che il suo destino sia stato segnato nel novembre 2021, quando Poole la portò fuori per quello che lei pensava fosse un incontro a pranzo durante il quale discutere del suo contratto in scadenza. Invece, Pool le chiese: «Cosa è successo tra te e Col Allan?». Lei gli parlò delle presunte molestie, e pochi mesi dopo fu licenziata. Il Post contesta questo resoconto e dice che la sua rivelazione a Poole «non ha avuto alcuna influenza sul suo allontanamento definitivo dal Post».

Qualunque sia la ragione per cui la Gotthelf sia stata segata, Dan Good, brevemente di nuovo al Post lo scorso anno, spiega come la Gotthelf «tentasse disperatamente di mantenere il controllo, inviando continui messaggi sulla chat aziendale e cercando conferme che lo staff continuasse ad essere il “Team Michelle”.

Finito il periodo di smart working, i dipendenti lavorano in redazione due volte a settimana. Chloe, una giornalista, dice che il clima è cambiato. «Ora è molto meno, come dire, minaccioso? Aggressivo? È come se quell’aria di terrorismo si fosse dissipata».
Un redattore dice che, rispetto ai tempi della Gotthelf, c’è meno pressione per trovare notizie e storie nuove da raccontare. Non c’è più nemmeno l’imperativo di essere sempre più veloci.

La notizia che Greenfield sarebbe stato promosso dopo la partenza di Michelle ha suscitato molte tensioni. «È tipico del Post dare un lavoro a un uomo bianco più vecchio quando stanno affrontando una causa per discriminazione di genere», mi ha scritto Chloe.
Ma secondo alcuni Posties, Greenfield non dirige più con lo stile tossico da molti definito “Old Post”.
Poi a marzo una donna nera è stata nominata managing editor in sostituzione di un bianco. E un’altra donna è stata nominata sua vice. Entrambe hanno 30 anni e un approccio sano alla gestione, dicono i Posties.

L’accordo

La News Corp. ha inizialmente cercato di far archiviare il caso della Gotthelf e a metà aprile l’avvocato mi ha detto di non poter parlare della causa.
Pochi giorni prima della pubblicazione di questo articolo le parti hanno annunciato un accordo dai contenuti tenuti segreti.
È stato, inoltre, rilasciato un comunicato in cui Poole e Gotthelf si sono lodati a vicenda. «Il Post è in buone mani con Keith Poole al timone», ha detto la Gotthelf. “La sua esperienza nel giornalismo cartaceo e digitale è di buon auspicio per il futuro del Post”.

Tutt’altri toni usò la Gotthelf quando fu contattata per questo articolo, alla fine di febbraio. Era seduta nel suo ufficio a casa, con una felpa nera e una fascia rosa pallido nei capelli, sullo sfondo di pareti marroni.

Eenergica, la Gotthelf, roteando sulla sua sedia, si è detta di impaziente di tornare al lavoro.
Ogni volta che pensa a come è stata trattata al Post, le sale la pressione. «Mi sento male», ha detto, mettendosi una mano sul cuore e ripetendo la parola “irrispettoso”. «Chi mi cerca su Google legge ‘ha fatto causa per molestie sessuali’. Non voglio che questa sia la mia eredità».

Crediti
Questa è la traduzione del pezzo apparso sul New York Magazine il 28 aprile scorso.