Ilva di Taranto: condanne ai Riva, ma nulla ancora è chiuso

A chiunque studi la Politica viene insegnato che gli Stati non possono dimenticare che esiste un interesse nazionale, un “prima la nazione” che implica realismo politico, competitività, scelte hard. E l’acciaio, in tutto questo, è cosa buona e giusta, perché è intorno a noi, è la creta del mondo contemporaneo. E qualcuno può pensare, giustamente, che questo valga anche qualche sacrificio.

Ma chi parla solo con l’austera severità dell’interesse nazionale e della competitività strategica, a Taranto dovrebbe andarci un giorno, un giorno solo. Dovrebbe sentire il respiro accartocciarsi nei giorni di vento, dovrebbe fare il bagnetto al proprio bambino e poi strisciare una calamita nella vasca da bagno. Dovrebbe infilare i piedi nelle pozzanghere color sangue nei giorni di pioggia, visitare il cimitero color ruggine; dovrebbe fare un giro negli obitori, nei reparti oncologici, soprattutto quelli infantili. E sentirlo quello schiaffo in faccia, quel tonfo al petto. Dovrebbe saperlo che nei giorni di vento, ancora prima del lockdown, i bambini non potevano andare a scuola nel quartiere Tamburi.

Poi dovrebbe andare in alcune città del mondo che si sono salvate. Dovrebbe studiare il miracolo della Ruhr, la storia di Bilbao o il caso di Pittsburgh, veri inferni in Terra che si sono salvati e convertiti. E che sono formule nuove di quell’interesse nazionale. E che non è questione di partiti, di pensiero politico, di destra o sinistra, ma che si tratta di giustizia. Bisognerebbe avere il coraggio di guardare il cadavere di un essere umano morto di inquinamento, le caverne dei suoi polmoni, il corpo gonfio, lo sguardo di vetro. E poi guardare le ciminiere. Lì, minacciose, impalate a ridosso della vita delle persone che vivono lì da molto prima dell’ILVA, checché se ne dica.

Questa mattina la Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Tre anni e mezzo di reclusione all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far “ammorbidire” la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte a Taranto. E ancora, 21 anni e 6 mesi di carcere l’ex responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà e 21 anni l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso.

È stata, inoltre, disposta la confisca degli impianti dell’area a caldo che furono sottoposti a sequestro il 26 luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva Forni Elettrici. Condannato a 17 anni e sei mesi l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti, e a 2 anni l’ex direttore generale dell’Agenzia per l’ambiente della Puglia, Giorgio Assennato, accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola. Secondo l’accusa, Assennato avrebbe taciuto delle pressioni subite dall’ex governatore affinché attenuasse le relazioni dell’Arpa a seguito dei controlli ispettivi ambientali nello stabilimento siderurgico.

Fuori dalla sala, mentre si legge la sentenza, facce che si sciolgono in pianto come quando la storia passa dalle vite dei singoli. Ci sono sorrisi e smorfie di dolore dietro le mascherine FFp2, occhi lucidi dietro gli occhiali da sole, uomini tutti d’un pezzo che si abbracciano. Non ci sono facinorosi o bandiere di partito: ci sono mamme, papà, bambini, persone comuni. Che non sono il popolo del “no”, che non avversano la modernità o la tecnologia. Ma che vivono allagati nel dolore e nella disperazione nell’idea che nulla possa cambiare. A loro l’ILVA ha tolto figli, genitori, amici, familiari e la possibilità di una vita normale. A tanti altri l’ILVA non ha tolto la vita, propria o dei propri cari, ma ha tolto la dignità, ha costretto ad andare via, ha tagliato i sogni. C’è anche qualcuno che tarantino non è e che questa croce se l’è presa addosso perché di quest’angolo di mondo è innamorato e ne ha fatto la sua battaglia.

Nelle stesse ore, Taranto vive fermenti (il SailGP del prossimo 5-6 giugno) che la portano al centro della scena nazionale e mondiale. A parlare di quel dramma e pontificare, fitte schiere di teste d’uovo che non hanno mai imboccato l’autostrada fino allo Jonio, per capire di più, per capire meglio, per cambiare idea. Per sbirciare quell’angolo di mondo che tanto allietava Orazio.

Oggi viene condannato un manipolo di persone che per dolo o per ignavia hanno concesso questo scempio. Nulla mai si dice, anche e soprattutto, che quello scempio è stato compiuto ancor prima dallo Stato italiano: dagli anni Sessanta fino a quando la proprietà non divenne privata. Forse anche quella generazione politica sarebbe dovuta finire al banco degli imputati. Oggi nulla si chiude, ma una nuova fase si apre, presumibilmente lunga, che poi porterà alla sentenza definitiva. La confisca degli impianti dell’area a caldo non ha alcun effetto immediato sulla produzione e sull’attività del siderurgico di Taranto: sarà operativa ed efficace solo a valle del giudizio definitivo della Corte di Cassazione.

Dietro il giudichese, le sorti di quasi 200mila persone.