In every dark hour

Il tre febbraio scorso sul New Yorker è apparso un articolo intitolato “In every dark hour” (In ogni momento critico), a firma di Jill Lepore, docente di storia alla Harvard University.
Il mini saggio, è possibile definirlo così per l’accuratezza documentale e argomentativa, fa parte di un’indagine ampia che la rivista americana ha avviato per esplorare il tema del futuro della democrazia.

L’analisi

Il Presidente degli Stati Uniti Thomas Wilson nel 1917 prometteva che la vittoria della Grande Guerra avrebbe reso il mondo “sicuro per la democrazia“. In effetti la pace determinò l’estrusione (to carve nel testo originale) di una dozzina di nuovi stati dagli imperi Russo, Ottomano e Austriaco. Aumentò il numero dei paesi democratici e la diffusione delle democrazie liberali apparve inevitabile. Ma si trattò di una mera illusione. Le giovani democrazie crebbero, incespicarono, vacillarono e caddero l’una dopo l’altra: Ungheria, Albania, Polonia, Lituania, Yugoslavia. Contemporaneamente, nei vecchi stati le masse disperate appoggiarono gli autoritarismi. Benito Mussolini marciò su Roma nel 1922 e dieci anni dopo dichiarava

gli stati liberali sono destinati a fallire.

Tutte le esperienze politiche contemporanee sono anti-liberali.

(Benito Mussolini, 1932)

C’era voluto un secolo e mezzo affinché democrazie costituzionali scalzassero monarchie che governavano per diritto divino e con forza brutale, occorsero pochi mesi perché Fascismo e Comunismo (in maiuscolo nel testo americano) rovesciassero questi governi. 

Nel 1933 Hitler prese il potere in Germania.  Si spensero poi le democrazie in Grecia, Romania, Estonia, Lituania, Portogallo, Spagna. 
La stessa democrazia americana fu indebolita da corruzione, monopoli, apatia, diseguaglianze, violenza politica, ingiustizia razziale, disoccupazione e miseria.

E’ possibile guardare alle vicende degli anni trenta come alla  foto degli antenati in cui si riconoscono i tratti dei contemporanei e considerare cosa sia successo dopo la fine della Guerra Fredda nel 1989. Da quel momento le democrazie sono cresciute floride, proprio come dopo la prima guerra mondiale. Come sempre, però, il tasso di mortalità infantile delle democrazie è stato alto al punto da poter dire che le democrazie tendono a morire in culla. 

A partire dal 2005 il numero delle democrazie del mondo è iniziato a crollare, come fu negli anni trenta.
Gli esempi citati dalla columnist del New Yorker a sostegno della propria teoria sono eclatanti: Vladimir Putin in Russia, Racep Tayyip Erdogan in Turchia, Viktor Orban in Ungheria, Jaroslaw Kaczynski in Polonia, Rodrigo Duterte nelle Filippine, Jair Bolsonaro in Brasile, Donald J. Trump  negli USA. 

Nel 2006 il Democracy Index classificava gli USA come “piena democrazia” in una scala che si estendeva da quel primato sino a “regime autoritario”. Nel 2016 gli USA  risultavano classificati come “democrazia imperfetta” e da allora la democrazia si è ulteriormente indebolita per effetto di fenomeni quali disinformazione, tribalizzazione, terrorismo domestico, violazioni dei diritti umani, intolleranza politica, nazionalismo bianco, assedio alla stampa, polarizzazione paralizzante, astensionismo, un Presidente criminale, un’Amministrazione presidenziale corrotta. Fattori che assemblano l’ossigeno del totalitarismo.

Nel paradosso la salvezza

La democrazia americana ebbe negli anni trenta e quaranta del novecento feroci nemici da destra e da sinistra. Mentre Roosvelt nel suo discorso di insediamento invitava a non diffidare di un futuro democratico, nei media, nelle università, in strada imperava il dibattito sul senso della democrazia e ci si interrogava se la popolazione ancora ci credesse. 

È un paradosso della democrazia che il modo migliore per difenderla sia attaccarla, chiederne di più, attraverso critiche, proteste e dissenso. Così il dibattito fu alimentato e mantenuto acceso.

Charles Beard, storico alla Columbia University, in un suo imprescindibile saggio, affermò che la democrazia americana avrebbe retto per il solo motivo dell’assenza negli U.S.A. di una Berlino o di una Roma su cui marciare.

Furono chiamati a dibattere pensatori del calibro di Bertrand Russel e John Dewey, così come il filosofo italiano Benedetto Croce al quale fu chiesto se non rilevasse un declino della democrazia. “Questo è il genere di domanda che io chiamo meteorologica“, rispose, “è come chiedere se oggi pioverà e sia il caso di prendere l’ombrello“. Croce spiegò che i problemi politici non sono forze esogene, aliene dal nostro controllo, piuttosto sono forze sotto il nostro controllo:

abbiamo solo bisogno di deciderci ad agire

(Benedetto Croce)

Non c’è da chiedere, dunque, se sia il caso di prendere l’ombrello o meno, ma di uscire e fermare la pioggia.

L’America lo fece col supporto del New Deal di Roosvelt che unì il paese negli anni trenta, quando i liberali di tutto il mondo guardavano agli Stati Uniti con la speranza che si trovasse lì una via di mezzo, a metà strada tra la malignità dell’economia statale e la spietatezza del capitalismo laissez-faire. Roosevelt promise di salvare la democrazia americana attraverso un “nuovo accordo per il popolo americano” fondato: sollievo, ripresa e riforma. Ci riuscì.

Commento

Gli elementi di degrado della democrazia e di formazione dell’humus di nuovi totalitarismi, identificati ed enunciati dalla Lepore senza alcuna smussatura semantica, sono sempre più evidenti nel vecchio continente. Non si registra, però, da questa parte dell’oceano quel dibattito che formò gli anticorpi democratici dell’America degli anni trenta e che lo sta formando oggi, come l’articolo qui riportato e l’indagine di cui fa parte stanno a dimostrare.